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IL CANTO DEL CIGNO DEL LACANISMO ITALIANO

Sul piano dei modi di pensiero delle popolazioni contemporanee, la prima causa della decadenza dipende chiaramente dal fatto che qualunque discorso mostrato nello spettacolo non lascia nessuno spazio alla risposta: e la logica si era formata socialmente nel dialogo. Inoltre, quando si è diffuso il rispetto verso ciò che parla nello spettacolo, che si suppone importante, ricco, prestigioso, che è l’autorità stessa, si diffonde anche la tendenza tra gli spettatori a voler essere illogici quanto lo spettacolo, per ostentare un riflesso individuale di quella autorità. Insomma, la logica non è facile e nessuno ha voglia di insegnarla[1].

 

Queste straordinarie riflessioni di Guy Debord, tratte dai Commentari a La Società dello spettacolo, fotografano in maniera incredibilmente profetica l’indiscutibile processo di decadenza che la psicoanalisi lacaniana italiana (non tutta, per fortuna) sta attraversando, a causa del suo progressivo ingresso nell’industria culturale, sempre più al servizio — come noto — di quella dello spettacolo. Negli ultimi anni, in effetti, l’uso mediatico (disinvolto, semplificato e seduttorio) dei suoi concetti gli è valso la conquista di nuovi spazi sociali e politici. In un’epoca nella quale il ‘religioso’ è tornato ad essere il rassicurante rifugio per le disorientate folle alla ricerca della “coincidenza del tutto con il tutto”[2], la tentazione di rispondere a tale angosciata richiesta di senso con il proprio sapere ha avuto, in qualche collega, il sopravvento. Ed ecco, allora, la formidabile trasformazione dell’analista in saggio, in esperto puntualmente convocato nei talkshow, in commentatore mainstream dei fenomeni sociali, in editorialista tanto improvvisato quanto accreditato dal pensiero politically correct. Miscelando astutamente i temi più sentiti dall’opinione pubblica con selezionati estratti della dottrina analitica, lo psicoanalista vedette (mutuo il termine dal glossario debordiano) ha progressivamente diluito lo spessore concettuale di quest’ultima nel magma superficiale del qualunquismo culturale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti (di tutti coloro, ovviamente, non incantati dalle movenze suadenti del Pifferaio magico): ricorso abusivo al corpus teorico-clinico psicoanalitico per spiegare la psicopatologia dell’avversario politico, per catalogare diagnosticamente ogni forma di dissenso, per indicare come svolgere bene il proprio ruolo sociale, familiare, civile, come cavarsela nelle dinamiche amorose, e così via. In sostanza, la messa al guinzaglio del magistero di Lacan e la sua conseguente mutazione in un catechismo ammantato di culturame.

 

Il portamento intrigante e ispirato dello psicoanalista social (tipica postura dell’aspirante maître a penser), finisce così con il suggellare e consolidare la credenza nevrotica nell’esistenza dell’Altro (incarnato, questa volta, nello psicoanalista stesso) e nel suo potere di giustificare, con le ‘parabole’ che enuncia, l’insensatezza della vita dei suoi seguaci. Come non vedere in tutto questo il rischio che Lacan denunciava già nel Seminario VI, quando si dichiarava sorpreso della “implicita adesione dell’analista a quello che possiamo chiamare un sistema di valori, il quale, pur essendo implicito, è nondimeno presente”[3]? L’analista — aggiungeva Lacan — non deve incarnare alcuna forma di ideale. Egli è — ribadiva con forza — uno specchio senza bagliori che mostra una superficie in cui non si riflette nulla. Al contrario, l’analista gradito ai media ama esporre la propria visione del mondo, ignorando il destino al quale lo stesso Lacan condannava i colleghi politicamente schierati: quello di essere fool, se di sinistra, o knave, se di destra. Sentenza tanto severa quanto efficace nel descrivere la realtà italiana. Da un lato, lo psicoanalista che prende posizioni pubbliche ispirate ad un progressismo radical con affermazioni di principio prive di conseguenze, che attribuiscono alle sue petizioni, intraducibili sul piano pragmatico, un carattere ‘idiota’ e patetico. Dall’altro, lo psicoanalista tradizionalista, sostenitore della necessità di salvaguardare le categorie morali consolidate, alle quali, tuttavia, personalmente, si guarda bene dall’aderire: per questo, mascalzone e canaglia.

 

In una specie di caricatura tragicomica, l’ormai celebre (e celebrato) analista di successo diventa il Professore, il Maestro che dispensa agli allievi (divenuti seguaci) il Verbo. Altro che “ignorantia docta”:

 

La tentazione di trasformare l’ignorantia docta in quella che ho chiamato, non da ieri, un’ignorantia docens è grande — affermava Lacan — perché è nel clima dell’epoca, di questo tempo dell’odio. Che lo psicoanalista creda di sapere qualcosa, in psicologia per esempio, è già l’inizio della sua rovina, per il semplice motivo che nessuno sa granché in psicologia, e la psicologia è essa stessa un errore di prospettiva sull’essere umano[4].

 

Ciò che sta accadendo in Italia enfatizza, nel parossismo delle sue manifestazioni e nella gravità delle sue conseguenze, la delicata questione del rapporto che lo psicoanalista intrattiene con la Polis: in che modo il suo sapere (che deriva dalla sua formazione personale e dalla propria attività clinica) può essere utile alla Città? Può, cioè, il materiale che egli ricava dalle analisi personali (dunque, intime e private), trasferirsi sul piano pubblico? Può egli sentirsi autorizzato a parlare di tutto, di questioni amorose, familiari, sociali, dei labirinti inestricabili delle pulsioni sessuali così come di politica, del rapporto con la morte, dell’impegno civile e via dicendo? Rischiando, magari, di fare “della psicoanalisi una specie di farmaco sociale”[5]? O di “lasciarsi andare a ridurre la psicoanalisi alla psicologia generale”[6]? Come può conciliarsi, in altre parole, la sua posizione di ‘specchio senza bagliori’ (all’interno del percorso analitico) con una posa pubblica schierata che esibisce elementi della propria vita privata?

 

Sembra, allora, che, una volta ancora, l’Italia sia destinata a confermare la propria vocazione ad essere una sorta di ‘laboratorio’[7], di ‘anteprima’ internazionale, di incubatrice di possibili derive che, in questo caso, riguardano il futuro (incerto) della psicoanalisi, quando questa si fa troppo ammiccante e “megafono delle potenze conformanti”[8]. Il rischio è chiaro: il grande consenso che la psicoanalisi ottiene presso coloro che credono di elevarsi culturalmente frequentando (come spettatori) un pensiero ritenuto ‘nobilitante’, comporta, inevitabilmente, la rinuncia alla complessità della sua teoresi e, conseguentemente, la sua definitiva scomparsa. In una specie di Canto del cigno, allora, quella che a molti appare come la sua massima espansione nel tessuto culturale del Paese viene a coincidere con il suo ultimo segno di vitalità: la sua popolarità finisce con il corrispondere al degrado populistico che ne decreterà inevitabilmente la fine. La sua ambizione ad essere attuale, al passo con i tempi, pienamente sintonizzata sulle mutazioni socio-antropologiche che descrive la espone, infatti, al pericolo di entrare in un’ambivalente (nel migliore dei casi, inconsapevole) risonanza di intenti con il sistema che vorrebbe smascherare. La denuncia che ad esso muove — ed in questo, l’insegnamento della Scuola di Francoforte resta davvero insuperato — si configura, in effetti, come l’involontaria adesione al ruolo che il sistema stesso le attribuisce, affinché la sua vera potenzialità ‘eversiva’ venga disattivata. Una volta entrato nel campo dello spettacolo e dell’industria culturale, ogni contenuto — per quanto, all’apparenza trasgressivo e anticonformista — non può che piegarsi alla logica che lo ha accolto: lo psicoanalista che cede alle lusinghe della popolarità mediatica e che rivendica il suo impegno social in nome della diffusione della psicoanalisi e del suo messaggio (presunto ‘in controtendenza’), contribuisce a fare della psicoanalisi stessa un nuovo oggetto del mercato, il cui valore verrà misurato – come qualunque altro oggetto di consumo – in termini economici (vendita di libri, aumento di richieste di cura e di partecipazioni al circo mediatico, organizzazione di eventi culturali, ecc.).

 

L’analista — ci ricorda Lacan — è un sofista, non un filosofo.

 

 

Non è semplicemente perché ignoriamo troppo la vita del soggetto che non possiamo rispondergli se è meglio sposarsi o non sposarsi nella tal circostanza, e che saremo, se siamo onesti, portati al riserbo — ma è perché il significato stesso del matrimonio è per ciascuno di noi una questione che resta aperta, e aperta in modo tale che, quanto alla sua applicazione a ogni caso particolare, non ci sentiamo in grado di rispondere quando siamo chiamati come direttori di coscienza”[9]. L’analista “rinuncia a ogni presa di posizione sul piano del discorso comune, con le sue profonde lacerazioni, quanto all’essenza dei costumi e allo statuto dell’individuo nella nostra società[10].

 

Egli deve escludere dalla sua azione pubblica che la psicoanalisi, arrogandosi il diritto di intervenire “nelle cosiddette relazioni umane, […] attraverso i mass media, insegni agli uni e agli altri come comportarsi per avere la pace in famiglia”[11], la possibilità di intromettersi nelle “cosiddette relazioni umane”. Non c’è nessun dubbio su quella che deve essere la posizione dell’analista nell’agorà :

 

 

Gli analisti devono forse spingere i soggetti sulla via del sapere assoluto, educarli su tutti i piani, non soltanto in psicologia, affinché scoprano le assurdità in mezzo alle quali vivono abitualmente, ma anche le assurdità nel sistema delle scienze? No di certo[12].

 

Credere di sapere è, dunque, la rovina dello psicoanalista, che, in tal modo, abdica al suo compito fondamentale, che “non è di guidare il soggetto verso un Wissen, un sapere, ma sulle vie di accesso a tale sapere[13]. Come essere più chiari?

 

Ma allora — si potrebbe obbiettare — l’analista è condannato a rintanarsi nel proprio studio, nel suo ‘splendido isolamento’, impossibilitato a pronunciarsi sulle questioni che, dal proprio osservatorio, rileva nel mondo che lo circonda? Non può che restare confinato nella torre d’avorio all’interno della quale riceve coloro che soffrono, impedendosi di prendere parola e intervenire nel dibattito pubblico? Egli, in sostanza, deve considerarsi escluso dalla scena politica? Perché mai non potrebbe mettere a disposizione della Polis il proprio sapere?

 

La specificità del sapere dello psicoanalista, in effetti, risiede nella specificità dell’oggetto che studia: l’inconscio. Il suo è, esclusivamente, un sapere sull’inconscio. O meglio, sul funzionamento dell’inconscio. I suoi studi, la sua formazione, la propria analisi e l’ascolto quotidiano dei suoi pazienti lo rendono sensibile alla manifestazione delle formazioni dell’inconscio. Egli sa che il sintomo che assedia il suo analizzante è una specie di Giano bifronte, significato di un significante rimosso, per un verso (e, dunque, vettore di un messaggio indirizzato all’Altro), nucleo irriducibile di un godimento che si oppone alla sua risoluzione, per l’altro. Egli sa che il sintomo fa soffrire ma, contemporaneamente, assicura una soddisfazione irrinunciabile perché l’essere umano può trovare soddisfazione in ciò che lo insoddisfa. Sa che la struttura del soggetto è determinata dall’Altro e che, di conseguenza, il soggetto è parlato, agito e goduto. Sa anche che è con la forza costante della pulsione che l’analizzante deve fare i conti e che il suo conflitto non risiede semplicisticamente nell’attrito tra le proprie esigenze e quelle della civiltà, ma, ben più drammaticamente, tra due forme di desiderio che albergano in lui: il desiderio di essere amato e riconosciuto (desiderio che lo porta a piegarsi alle richieste dell’Altro) e il desiderio di affermarsi come separato, il desiderio di essere, il desiderio rimosso e inconscio. Sa anche che — come affermava Freud — la psicologia del soggetto è di per se sociale, che il campo psichico contiene tanto l’individuale quanto il collettivo, tanto il soggettivo quanto il comunitario: e che solo il soggetto della parola può costruire un discorso capace di istituire uno spazio di comunità.

 

Il sapere che lo caratterizza, insomma, egli lo ricava da ciò che ascolta, dunque dalla cura e dall’attenzione che sa riservare alle sfumature, ai dettagli, ai micro-eventi che segnano fatalmente le esistenze dei suoi pazienti. Un sapere del particolare, un sapere sul particolare: che, tuttavia, lo illumina sulle dinamiche relazionali che lo hanno generato, riverberandosi, di conseguenza, sul piano sociale.

 

Ma il sociale — che lo psicoanalista conosce e studia — non è il politico: i due ambiti non sono in alcun modo sovrapponibili. L’analisi che l’analista riserva ai fenomeni sociali è compiuta da una punto di osservazione particolare: egli guarda il mondo dalla finestra del proprio studio, dentro il quale, (e solo dentro il quale) opera in quanto analista. L’eventuale dimestichezza con una sorta di sociologia che gli deriva dall’ascolto delle persone che si rivolgono a lui non lo autorizza certamente a pensarsi nella funzione di governo dell’umano. Un conto, infatti, è l’analisi del fenomeno sociale (sul quale può evidenziare anche un certo talento), un conto è l’individuazione e la proposta di soluzioni da applicare alla vita della città, ovvero, l’esercizio del potere che a questa funzione inevitabilmente si associa. L’analista è tale – potremmo aggiungere – solo dentro il suo studio. Fuori, il suo sapere non è operativo: l’analista non ha il sapere per ‘curare’ la Polis. Se si mette a farlo – il che è, sia chiaro, assolutamente legittimo — lo può fare solo utilizzando il sapere di altre discipline (la storia, la filosofia, l’economia, la geopolitica, ecc.) ben più attrezzate allo scopo. Dunque, non in quanto analista. La consapevolezza che non possa essere il proprio sapere ad orientarlo nella definizione del suo eventuale progetto politico deve caratterizzare il suo operato, allorché intende interessarsi alla Città. Non è l’impegno politico dello psicoanalista a costituire un problema: il problema si presenta quando il suo specifico sapere — che è, lo ripeto, il sapere sull’inconscio — viene utilizzato per mettere in atto quello stratagemma volto ad ottenere consenso, che qualunque lettore di Freud conosce bene: la suggestione del transfert. Freud descrive il potere di fascinazione attraverso cui il leader attrae le masse, tanto più quando, in periodi storici di trasformazioni e riconfigurazioni economico-culturali (il nostro, ad esempio), la domanda di sicurezza, di certezze e di sapere (che punta a colmare il vuoto angosciante di uno smarrimento esistenziale) incontra un’offerta di senso che attribuisce al discorso di chi lo tiene il carattere di ‘pastorale’ psicologica, dei cui rischi Lacan ci ha più volte avvertito.

 

L’analista deve essere consapevole che il suo è un sapere insaturo, che, di conseguenza, non può spacciare per sistema di pensiero esatto e solido. Egli non può rispondere alla domanda di verità di chi lo ascolta, ne può entrare in risonanza con il pensiero dominante, che mira a intorpidire le coscienze per evitare possibili reazioni di insofferenza al sistema. Nell’impegno che dedica alla Polis, dunque, l’analista deve guardarsi bene dal colludere con le aspettative del sistema, allontanando il più possibile il rischio che la sua parola si riduca a mero strumento di conforto, pacificazione e rassicurazione. Analogamente a quanto accade nel corso della cura, è, infatti, necessario che il suo atto pubblico punti a mettere in luce gli aspetti conflittuali e contraddittori presenti nel discorso sociale, contribuendo ad illuminarne gli elementi di contrasto e di attrito, piuttosto che proporre improbabili soluzioni. Il suo apporto al dibattito politico-sociale non può sovvertire la postura socratica che ne contraddistingue l’azione all’interno del proprio studio; che consiste, in fondo, in un’incessante opera di disturbo all’economia libidica patologica, infastidendone la tendenza ripetitiva e perturbandone l’equilibrio sintomatico. Solo se ‘molesto’, in conclusione, il suo intervento all’interno della Polis sarà all’altezza del carattere radicalmente sovversivo della psicoanalisi e fedele al gesto inaugurale del suo fondatore.

[1] G. DEBORD, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 2001, p. 208.

[2] Straordinaria definizione dello spirito religioso proposta da Lacan in: Il trionfo della religione, in Id., « Dei Nomi-del-Padre » seguito da « Il trionfo della religione », a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, 2006, p. 99.

[3] J. LACAN, Il seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione, Einaudi, Torino, 2016, p. 520.

[4] J. LACAN, Il seminario. Libro I, Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino, 2014, p. 327.

[5] J. LACAN, Il seminario. Libro IV. La relazione d’oggetto, Einaudi, Torino, 1996, p. 14.

[6] J. LACAN, Il seminario. Libro II. cit., p. 18.

[7] Mi riferisco alla discutibile qualità che il mio Paese ha dimostrato e dimostra nel favorire la nascita di fenomeni sociali e politici (l’ultimo, in ordine di tempo, è certamente, dopo il ‘fenomeno’ Berlusconi, lo sviluppo del Movimento 5 Stelle) che irrompono nella scena mondiale ponendosi come esito (inizialmente farsesco) di un clima di tensione che, ripreso successivamente in altre nazioni, acquisisce un carattere ben più drammatico.

[8] G. ANDERS, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 143.

[9] J. LACAN, Il seminario. Libro III. Le psicosi, Einaudi, Torino 1974, p. 158.

[10] Ibidem, p. 159.

[11] J. LACAN, Il seminario. Libro II, cit., p. 334. .

[12] J. LACAN, Il seminario. Libro I. cit., p. 312.

[13] Ibidem, p. 327.


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STRUCTURE DE TEXTE ET MÉTAPHORE DANS ŒDIPE ROI ET HAMLET : IMPLICATIONS CLINIQUES ET POLITIQUES – Jan Horst KEPPLER

Introduction

Le Séminaire VI de Jacques Lacan de 1958-1959 sur Le Désir et son interprétation compte sept leçons sur La Tragédie d’Hamlet, prince de Danemark qui constituent un sous-ensemble bien défini. Au cours de ces leçons, Lacan dit dans un mélange de relecture, traduction, interprétation et commentaire toute son admiration et tout son amour pour cette pièce de William Shakespeare. Il en résulte une fresque baroque qui va de la trouvaille à la lecture structurelle en passant par la réminiscence personnelle et la digression clinique. Le moteur de l’élaboration de cette fresque au fil des sept leçons est la volonté qu’a Lacan de marquer l’opposition entre « l’ancien mythe » d’Œdipe et la « tragédie moderne » d’Hamlet.

Lacan insiste sur cette opposition de manière parfois explicite, parfois implicite. C’est le mérite des Mythologiques de Lacan. La prison de verre du fantasme : Œdipe roi, Le diable amoureux, Hamlet de Markos Zafiropoulos que de la faire émerger comme enjeu central de ces sept leçons. Zafiropoulos montre comment l’Œdipe Roi de Sophocle et le Hamlet de Shakespeare maintiennent dans l’analyse de Lacan un rapport étroit, qui va au-delà de la simple actualisation. Plus précisément, Hamlet, la pièce, mettrait en scène les conséquences de la transformation du mythe d’Œdipe en fantasme princier.

Un tel constat implique deux questions : qu’est-ce qu’un mythe et que signifie sa mutation en fantasme ? Pour répondre à la première question, la section suivante reprendra les travaux de Claude Lévi-Strauss sur la structure des mythes. En réponse à la deuxième question, la section 3 réunira les observations de Freud, Lacan et Zafiropoulos. Commençons ici seulement par noter que la fantasmatisation du mythe d’Œdipe entraîne une fractalisation des quatre motifs principaux du mythe, c’est-à-dire inceste, meurtre, rencontre avec un médiateur et automutilation du héros. Le terme de « fractalisation » est ici à comprendre dans le sens d’une reprise, soit complète soit partielle, des différents motifs au sein de constellations qui changent selon les différents niveaux du récit.

Entre le mythe originel et la mise en scène de sa reprise comme fantasme dans la contemporanéité de l’Angleterre élisabéthaine se posent alors des questions entrelacées qui appartiennent aux trois ordres du symbolique, de la clinique et du politique. Cet essai en sémiologie analytique de textes fictionnels approfondira la compréhension des différences entre les deux textes par rapport à ces trois catégories, et ce à partir de leurs positionnements respectifs vis-à-vis de la structure du mythe proposée par Lévi-Strauss.

Au niveau du symbolique, dans Œdipe Roi, la parole est encore pleine. Il y réside un point de fuite qui oriente la structure symbolique et garantit la bonne distance entre le mot et la chose. Ce point de fuite est la métaphore paternelle, c’est-à-dire l’indication de la place du héros-Roi en fonction de la place de celui dont il a reçu la Loi de l’interdiction de l’inceste. C’est en acceptant cette Loi que le héros entre dans le symbolique. Le mythe relate justement la menace qui pèse sur la métaphore paternelle à cause de la transgression du héros, ainsi que la réparation de la structure symbolique par son sacrifice. Hamlet, par contre, développe un questionnement sophistiqué sur la représentativité du langage, de la perception et de l’efficacité du signifiant. L’existence d’une métaphore paternelle reste en effet en suspens tout au long de la pièce. S’installe alors une méfiance vis-à-vis de la parole donnée ou reçue. Cette fragilité des discours et l’angoisse qu’elle génère fondent la modernité de la pièce soulignée par Lacan.

Au niveau clinique, la discussion sera orientée par la déclaration programmatique de Lacan au début des sept leçons évoquées :

Je soutiens et je soutiendrai sans ambiguïté — et, ce faisant, je pense être dans la ligne de Freud — que les créations poétiques engendrent, plus qu’elles ne les reflètent, les créations psychologiques (Lacan, Séminaire VI : Le Désir et son interprétation, p. 295-296).

Les textes poétiques ont des effets cliniques sur leurs auteurs, leurs lecteurs et les membres de leur auditoire. Pour Lévi-Strauss, ces effets cliniques résultent, dans le cas du mythe, de la seule structure du texte. Identifier la structure d’Œdipe Roi et d’Hamlet est donc la première tâche de cet essai. On verra que leur différence décisive consiste respectivement dans l’achèvement et dans l’échec de l’établissement d’une métaphore générale qui oriente l’ensemble du texte.

La lecture de Lévi-Strauss permet de montrer que l’émergence d’une telle métaphore est un fait structurel, endogène au texte, indépendamment de son contenu descriptif. Une fois établie, la fonction clinique de la métaphore structurelle du mythe est de toute pièce équivalente au totem ou à la métaphore paternelle de la théorie lacanienne. Œdipe Roi établit cette métaphore au moment précis de l’automutilation de son héros, qui confirme par son acte « je suis le fils de Laïos ». Hamlet, en revanche, offre la mise en scène des effets délétères de l’absence d’une métaphore paternelle consistante et des échecs répétés de l’établir.

Finalement, Œdipe Roi et Hamlet sont des textes foncièrement politiques. Leur dimension clinique, soit au niveau des personnages de la trame narrative, soit au niveau du lecteur, est inextricablement et explicitement articulée à une dimension sociale. Cette dimension inclut évidemment la validation sociale de la métaphore structurante. Plus précisément, elle implique l’assomption par le héros d’une responsabilité politique, au sens étroit d’une pratique du pouvoir dans la polis ou dans l’État. La question de l’existence ou de l’absence d’une métaphore polarisant les désirs n’a de sens que dans cette dimension politique. Œdipe agit en tant que Roi de Thèbes quand il se crève les yeux et libère ainsi la ville de la peste. Hamlet atermoie en tant que Prince et échoue alors à concrétiser son amour pour la belle Ophélie et à délivrer l’État du Danemark de sa pourriture. L’immense force de ces deux textes réside aussi dans la sérénité avec laquelle ils affirment que l’intime est politique et que le politique agit sur l’intime.

Si on peut lire l’articulation de l’intime et du politique comme une vérité intemporelle, la dimension politique permet, ou plutôt impose, l’actualisation toujours renouvelée de cette vérité dans des mises en scène qui s’adressent à des contextes historiques concrets. Hamlet pose ainsi la question de ce qu’il en est du mythe d’Œdipe, et ainsi de la possibilité d’une métaphore universelle, au moment du passage du XVIe au XVIIe siècle, quand la « Reine vierge » régnait sans partage.

Avec ces remarques liminaires, il convient d’étayer les résultats indiqués. La section suivante présentera ainsi la structure canonique du mythe selon Lévi-Strauss, qui établit une métaphore au niveau de l’ensemble du texte et fonde ainsi l’efficacité clinique du mythe. Ce sera aussi l’occasion de montrer comment la structure d’Hamlet s’en distingue. Une troisième partie permettra de montrer plus en détail la nature fractale de la pièce de Shakespeare qui a tant fasciné Lacan. On comprendra alors mieux le fonctionnement de ce kaléidoscope qui projette une image différente à chaque changement de perspective tout en préservant la nature de ses éléments constituants. Une quatrième partie conclura en revenant sur la dimension politique.

La structure des mythes selon Lévi-Strauss et l’efficacité clinique d’Œdipe roi de Sophocle

« Qu’est-ce qu’un mythe ? », s’interroge Lévi-Strauss dans deux articles devenus eux-mêmes mythiques. Il convient d’y répondre en deux temps. D’abord dans une forme sommaire qui indique le chemin à suivre ; ensuite dans une forme plus complète qui expose de manière plus détaillée l’argumentation que Lévi-Strauss développe pour la première fois dans « The Structural Study of Myth », paru en 1955 dans The Journal of American Folklore.[1]

Pour faire simple, un mythe est une structure textuelle particulière avec une efficacité clinique prouvée. Toutes les œuvres poétiques ont une efficacité clinique, au moins potentielle. Elles « engendrent des formations psychologiques » parce qu’elles exhibent des structures symboliques qui invitent à la construction subjective. Le mythe en est la formation de base, la plus pure et la plus puissante. Pourquoi ? Parce que le mythe est une structure signifiante qui crée sa propre métaphore au niveau de la macrostructure du récit au lieu d’utiliser tel ou tel élément comme métaphore, à la manière de structures fictionnelles dérivées. Le mythe va donc au-delà de l’observation de Jakobson selon laquelle la mise en œuvre systématique de la fonction métaphorique est le propre de tout texte poétique. Le texte poétique crée un tissu entre le fil de trame des métonymies qui se suivent par association et les fils de chaîne qui constituent autant de métaphores. Les structures qui en résultent sont d’une grande richesse, avec des croisements multiples à des niveaux locaux ou globaux, des changements de vitesse, d’épaisseur, de coloration, etc.

Le mythe, par contre, est défini par une seule structure ultra-condensée. Cette structure correspond à un carré qui est constitué par deux fois deux éléments qui se font doublement miroir. Le rapport entre les éléments A et B est donc identique au rapport entre les éléments C et D. À leur tour, chacun des quatre éléments A, B, C et D, font état d’un des deux rapports possibles entre chaque fois deux des quatre agents. Lévi-Strauss, qui fournit une représentation analytique de ce croisement dans une « formule canonique » du mythe, parle d’une isomorphie des deux sous-structures A/B et C/D. Une métaphore constitue en effet une isomorphie de signifiants, mais toute isomorphie ne constitue pas une métaphore. Pour que la métaphore ait la stabilité nécessaire pour ancrer le récit, pour qu’elle tienne, les quatre éléments doivent « rester en place » et ne pas se laisser entraîner par la dérive aléatoire des métonymies. La structure isomorphique doit donc être verrouillée. Cette opération s’accomplit à travers la reprise inversée de l’élément B par l’élément D. Selon Lévi-Strauss, le mythe est ainsi la forme la plus condensée d’une métaphore textuelle. Le mythe constitue alors le degré zéro de la poésie, son archétype réduit à l’essentiel et, bien sûr, son cœur intime.

Il convient de parler du mythe plutôt que des mythes. Car ce que montre Lévi-Strauss, c’est que toute création textuelle méritant d’être incluse dans la catégorie des mythes emploie la même structure. Lévi-Strauss ne fait pas de cette structure en tant que telle le critère d’une appartenance à la catégorie des mythes. La structure du mythe résulte d’une recherche sur un ensemble de textes mythiques ; ce n’est pas un critère ex ante. Le seul critère pour qualifier un texte de mythe – et cela va tout à fait dans le sens de la citation de Lacan supra – est son efficacité clinique, « le mythe reste mythe aussi longtemps qu’il est perçu comme tel (Lévi-Strauss (1958), p. 240) ! » Par la suite, nous verrons que cette efficacité clinique repose sur la construction d’une métaphore universelle de quatre éléments qui englobe l’ensemble du texte.

Quels sont alors les quatre éléments de base qui constituent cette structure symbolique qui soutient tant la construction subjective ? En fait, ces éléments émergent d’une étude comparative des différentes variantes du mythe d’Œdipe. De manière indirecte, Lévi-Strauss étaye donc le choix de Freud de faire du mythe d’Œdipe le concept le plus important de la psychanalyse. Mais il se garde bien d’attribuer explicitement à Freud un rôle central dans son analyse et préfère le ranger, avec Sophocle et d’autres, parmi les sources des nombreuses différentes variantes du mythe d’Œdipe.

C’est donc finalement le mythe d’Œdipe qui permet le mieux de cerner la structure paradigmatique des mythes, ou plutôt du mythe. Dans un élan d’abstraction mathématisante qui laisse présager les mathèmes lacaniens, chacun des quatre macroéléments du mythe est présenté comme une fonction logique. Chaque fonction réalise à son tour une des deux relations possibles entre deux agents qui sont tirés d’un ensemble de quatre agents. Les deux relations fonctionnelles possibles sont l’inceste et le meurtre. Les quatre agents sont le héros, un parent féminin du héros, un parent masculin du héros et le trickster, un monstre bisexuel.

Les quatre fonctions qui constituent les macroéléments du mythe selon Lévi-Strauss sont alors :

  1. Un inceste est observé ou vécu par le héros (fx(a)) où fx est la fonction de l’inceste et (a) est le héros ; on pourrait traduire la formule par « le héros subit un inceste » ;

  2. Le meurtre d’un parent par le héros (fy(b)) où fy est la fonction de la mort et (b) est un adversaire du héros[2] ; on pourrait traduire la formule par « un parent, adversaire du héros, subit la mort » ;

  3. La rencontre avec un monstre bisexuel, le trickster, qui prend différentes figures (le Sphinx, le coyote, le corbeau…) et fait fonction de médiateur (fx(b)) où fx est à nouveau la fonction de l’inceste (internalisée ici comme bisexualité) et (b) est toujours un adversaire du héros[3] ; on pourrait traduire la formule par « un adversaire/compagnon du héros avait subi un inceste ».

  4. Une difficulté à marcher ou à se tenir droit car le héros porte une blessure (fa-1 (y)) où il organise de manière inversée (fa-1) l’internalisation de la mort y, ce qui correspond à la castration ; on pourrait traduire la formule par « le héros devenu sujet s’auto-administre la fonction de la mort ».

Un mythe est ensuite une structure textuelle qui organise deux oppositions entre ces quatre éléments dans une isomorphie. Lévi-Strauss utilise le signe «   » qui veut dire littéralement « approximativement égal », mais qui signifie en topologie que deux ensembles sont isomorphes, c’est-à-dire possèdent la même structure. Une deuxième opposition fait ainsi écho à la première, dont elle constitue la transposition et l’internalisation. Cette isomorphie entre deux structures correspond à la construction d’une métaphore (transport). Lévi-Strauss lui-même n’utilise pas l’expression de « métaphore ». Par contre, il synthétise cette double opposition entre A et B (inceste et mort), et celle entre C et D (rencontre avec un monstre bisexuel et internalisation de la mort comme castration) dans une formule générale :

 

Enfin, si l’on parvient à ordonner une série complète de variantes sous la forme d’un groupe de permutations, on peut espérer découvrir la loi du groupe. Dans l’état actuel des recherches, on devra se contenter ici d’indications très approximatives. Quelles que soient les précisions et modifications qui devront être apportées à la formule ci-dessous, il semble dès à présent acquis que tout mythe (considéré comme l’ensemble de ses variantes) est réductible à une relation canonique du type :

fx(a) : fy(b)  fx(b) : fa-1(y)

dans laquelle, deux termes a et b étant donnés simultanément ainsi que deux fonctions, x et y, de ces termes, on pose qu’une relation d’équivalence existe entre deux situations, définies respectivement par une inversion des termes et des relations, sous deux conditions : 1° qu’un des termes soit remplacé par son contraire (dans l’expression ci-dessus : a et a-i) ; 2° qu’une inversion corrélative se produise entre la valeur de fonction et la valeur de terme de deux éléments (ci-dessus : y et a) (Lévi-Strauss (1958), p. 252-253).

 

L’opération décisive est le déclenchement de la fonction fa-1 (y) qui signifie que le héros (a) s’auto-administre, en tant que négation de lui-même, l’expérience de la mort (y). Ainsi le héros n’est plus objet ou « terme » dans le langage de Lévi-Strauss, mais devient fonction, c’est-à-dire sujet, avec une internalisation de la mort, c’est-à-dire la castration. Cette dernière peut prendre la forme d’une automutilation. Le mythe ainsi complété constitue selon Lévi-Strauss un « pont » entre la reconnaissance difficile du fait d’être né de l’union d’une femme et d’un homme et la croyance tenace en l’autochtonie de l’homme (Lévi-Strauss (1958), p. 240).

Au niveau de la logique de la structure du texte, fa-1(y) ne se constitue pas seulement d’une reprise du meurtre du parent fy(b). On comprend aisément qu’une telle reprise donnerait suite à une série infinie de répétitions. Même si les conteurs de mythes, tel Homère, ne se priveront pas de ces éléments retardants à des fins dramaturgiques, ces derniers ne résolvent rien. Ils ne font que préparer la chute : ce moment où le meurtre n’est plus répété mais internalisé et porté ainsi au niveau du symbolique. À ce stade, le carré est verrouillé et la métaphore établie. Seul ce moment-là correspond à la coupure de la bande de Moebius qui constitue le sujet (Nasio (1971), p. 104).

Selon Lévi-Strauss, cette internalisation de la mort est souvent associée, dans les variantes du mythe d’Œdipe, à une incapacité de marcher droit. Sophocle y ajoute l’auto-aveuglement d’Œdipe. À partir de là, le héros n’est plus simplement un argument ou un chiffre dans la mécanique pulsionnelle, mais devient lui-même « fonction », c’est-à-dire sujet, au prix de l’internalisation de l’expérience de sa propre annihilation. La structure générale du mythe est alors :

 

Inceste : meurtre d’un parent  rencontre du monstre bisexuel : internalisation de la mort (castration)

 

Cette structure s’actualise dans Œdipe Roi de Sophocle comme suit :

 

Inceste avec Jocaste : meurtre de Laïus   rencontres avec Sphinx et Tirésias : crevaison des yeux.

 

[1] La version française de son article paraît en 1958 sous le titre « La structure des mythes », qui correspond au chapitre 11 de son Anthropologie structurale, Paris, Plon, p. 227-255. Lévi-Strauss dans une note de bas de page indique lui-même la relation des deux versions : « D’après l’article original : The Structural Study of Myth, in : Mytii, A Symposium, Journal of American Folklore, vol. 78, n° 270, oct.-déc. 1955, p. 428-444. Traduit avec quelques compléments et modifications. »

[2] Dans le mythe sophocléen d’Œdipe, que Lévi-Strauss considère comme le paradigme du mythe, cet adversaire est le père. Sans s’attarder sur la figure du père, Lévi-Strauss s’accorde donc d’une certaine manière avec Freud quant à l’existence d’une métaphore fondatrice qui thématise le meurtre du père. Leur différence est pourtant importante. Freud place l’acte du meurtre chronologiquement avant sa reprise dans le mythe du totem. Lévi-Strauss intègre le récit du meurtre dans le mythe lui-même. Il reste alors redevable d’une théorie de la genèse du mythe. Seul Freud fournit une causalité logique de la genèse du mythe dans la diachronie. Lévi-Strauss livre une structure du mythe, nécessairement métaphorique, dans l’axe systématique de la synchronie. On constate alors l’utilité qu’a pu y trouver Lacan, en croisant et en articulant les développements de Freud et de Lévi-Strauss pour sa propre élaboration de la notion de métaphore paternelle.

[3] Lévi-Strauss thématise la question de la bisexualité à l’occasion d’une longue discussion touchant aux mythes des peuples nord-américains. Dans ces mythes, le dénouement de l’impasse du héros est souvent précipité par une rencontre avec la figure du trickster, l’équivalent du Sphinx dans le mythe sophocléen d’Œdipe. Lévi-Strauss s’interroge sur la raison pour laquelle le trickster est souvent un coyote ou un corbeau. Sa réponse est que le coyote et le corbeau sont des animaux qui mangent de la charogne. Ils sont donc à la fois un peu comme les carnivores et un peu comme les herbivores et font ainsi figure de médiateurs entre deux mondes. Leur rencontre déclenche souvent une transformation du héros. Mais le brouillard (terre, ciel) ou les résidus végétaux (mangeable, non mangeable) ou la poussière (propre, sale) peuvent aussi assumer des fonctions médiatrices comparables. À propos de ces médiateurs, Lévi-Strauss écrit qu’ils sont des « figures phalliques (médiateurs entre les sexes) (Lévi-Strauss (1958), p. 250). »

L’isomorphisme structurel des relations que maintiennent les quatre éléments de base du mythe établit ainsi une « méta-métaphore », c’est-à-dire une métaphore générale qui englobe l’ensemble du récit. Lévi-Strauss fournit ainsi une démonstration de la conjecture de Walter Benjamin, qui écrit dans son fragment philosophique sur « Analogie und Verwandtschaft (Analogie et parenté) » que la « similitude métaphorique est [toujours] une similitude de relations (Benjamin (2007, 1919-21), p. 68). » Le mythe d’Œdipe, la matrice génératrice de tout mythe, établit alors une métaphore fondatrice par la voie d’une isomorphie interne. Pour le dire avec Alain Vanier, « le complexe d’Œdipe [est] la base de toute métaphore (Vanier (2001), p. 42). » La métaphorisation du trauma originel constitué par les éléments « inceste » et « meurtre » fonde l’efficacité clinique du mythe, un point sur lequel Lévi-Strauss insiste à plusieurs reprises. Cette efficacité clinique repose sur les perspectives de sublimation qu’offrent l’opération de métaphorisation pour le sujet individuel et le renforcement, par son caractère partagé et public, de la cohésion du groupe.

Roman Jakobson nous a appris que la métaphorisation est une qualité de tous les textes poétiques. Ce qui distingue le mythe d’autres productions poétiques est que cette fonction ne s’applique pas au niveau de l’unité signifiante, le mot, la phrase, le paragraphe etc., mais au niveau le plus abstrait et général possible : avec une majestueuse simplicité, le mythe articule quatre éléments signifiants pour établir les axes de tout l’univers symbolique. Dans le mythe tout particulièrement, la métaphore est endogénéisée ; elle est une fonction de la pure structure du texte.

Le tableau ci-dessous résume la structure du mythe selon Lévi-Strauss ainsi que les positionnements respectifs qu’entretiennent Œdipe Roi et La Tragédie d’Hamlet vis-à-vis de cette structure. Il permet ainsi de visualiser de manière schématisée le caractère paradigmatique d’Œdipe Roi et la fractalisation de ses motifs dans Hamlet

L’actualisation de la structure des mythes selon Lévi-Strauss dans Œdipe Roi et La Tragédie d’Hamlet, prince de Danemark 

La formule canonique du mythe selon Lévi-Strauss dans « La structure des mythes » (1958) est : fx(a) : fy(b)  fx(b) : fa-1(y)     

Les quatre éléments invariants du mythe sont :

  1. fx(a) un inceste observé ou vécu par le héros ; fx est la fonction de l’inceste et a est le héros ;

  2. fy(b) le meurtre d’un parent par le héros ; fy est la fonction de la mort et b un adversaire du héros ;

  3. fx(b) la rencontre avec un monstre bisexuel (trickster) ; fx, la fonction de l’inceste, est internalisée comme bisexualité ; b est un adversaire du héros ;

  4. fa-1(y) une difficulté de marcher droit, une blessure auto-infligée, la castration ; la mort (y) est internalisée par inversion ; le héros devient sujet.

indique une isomorphie entre deux structures ; cette isomorphie crée une métaphore interne qui fonde l’efficacité clinique du mythe.

La forme générale du mythe est alors :    1. Inceste : 2. Meurtre  3. Rencontre avec un monstre bisexuel : 4. Castration

Son actualisation dans Œdipe Roi est :     1. Inceste Jocaste/Œdipe : 2. Meurtre de Laïus   3. Rencontres de Sphinx et Tirésias ; 4. Crevaison des yeux   

Le mythe comme fantasme œdipien dans Hamlet selon Lacan : la spectralité interne des différents éléments de la structure des mythes crée « la prison de verre » (Zafiropoulos), déconstruit le mythe et questionne la possibilité même d’une métaphore structurante et de l’avènement d’un sujet.

 

A. « Incestes » fantasmés ou suggérés  B. Meurtres et morts en rafale mais peu nets (poison, suicide, contrefaçon, à l’aveugle…) ; des « boulots bousillés » (Lacan) C. Rencontres avec des tricksters (médiateurs entre deux mondes) inefficaces ou douteux D. Castration évoquée mais non advenue ou non acceptée
-Claudius/Gertrude -Hamlet senior, roi symbolique -le spectre d’Hamlet senior -retardements
– Gertrude/Hamlet -Polonius -la troupe de théâtre -empêchements
-Polonius/Ophélie -Ophélie -Polonius -doutes, monologues
  -Gertrude -Yorick -interdits absurdes
  -Laërte -Fossoyeur -fantaisies morbides
  -Claudius, roi réel -« étrication phallique »
  -Hamlet junior -« phallophanies »
  -Rosencrantz et Guldenstern

  

La fractalisation fantasmée du mythe œdipien dans Hamlet

Si l’on part de la structure du mythe établie par Lévi-Strauss, quelle est alors la « structure » de la Tragédie d’Hamlet ? On pourrait dire que c’est tout le contraire, mais ce ne serait qu’à moitié vrai. Si tel est le cas, ce n’est certainement pas parce qu’Hamlet offrirait une sorte de version amoindrie ou complexifiée de la structure que Lévi-Strauss décèle dans le mythe œdipien. Non, Hamlet utilise précisément les mêmes quatre macroéléments – inceste, meurtre, rencontre avec un ou plusieurs médiateurs entre deux mondes et castration – mais il les multiplie, les reflète, les ironise, les hachure et les recompose dans l’immense salle de miroirs que constitue la pièce. Shakespeare dynamite le mythe œdipien, certes, mais pas dans une logique de destruction qu’on pourrait par exemple associer à un appel à une jouissance débridée. Il s’agit plutôt de tester la validité du mythe œdipien, d’en faire sortir la nécessité fatale au moment même où il s’effrite en conjonction avec la foi dans la parole donnée.

Le tableau de la page précédente résume le positionnement d’Hamlet vis-à-vis de la structure du mythe de Lévi-Strauss en le confrontant à celui d’Œdipe Roi. On voit alors qu’Hamlet reprend parfaitement les différents éléments constituants du mythe, mais en les relativisant et en les insérant dans des séries spectrales (« boulots bousillés » (Lacan), médiateurs douteux, prolifération de porteurs d’une phallicité étriquée…) où chaque élément imparfait ou éphémère renvoie au prochain.   

Cette structure rejaillit à la fois sur l’interprétation analytique que l’on peut appliquer aux personnages de la pièce et sur l’efficacité clinique de la stratégie textuelle qui en est distincte. Sur le plan de l’interprétation analytique, tout acte potentiel d’Hamlet est inhibé par son fantasme œdipien polarisé par le désir de sa mère. Ce génitif est ici à la fois subjectif et objectif. Lacan souligne la nature objective du génitif : « C’est à quoi Hamlet a affaire, et tout le temps… c’est un désir, mais qui est bien loin du sien… c’est le désir, non pas pour sa mère, mais de sa mère (Lacan (2013), p. 331). » Il était alors nécessaire de souligner cet aspect moins largement reconnu, notamment auprès d’un public des années 1950, de culture analytique traditionnelle. Aujourd’hui, on peut s’accorder sur le fait que l’ambivalence suggérée par la grammaire a tout son sens.

Le fantasme œdipien d’Hamlet le retient dans la stase d’un désir toujours contrarié et qui se complait dans cette contrariété. Ce n’est pas seulement une affaire personnelle. Car la stase du désir se répand autour d’Hamlet sous la forme d’une angoisse généralisée. Hamlet n’est pas n’importe qui. Il est le Prince de Danemark, héritier du trône, pourvu de grands dons physiques et intellectuels. Malgré toutes leurs différences, Œdipe et Hamlet ont ceci en commun : tous deux sont les générateurs royaux de transferts intenses de la part de leurs proches, de leurs sujets et de nous, leurs spectateurs.

Sur le plan de la stratégie textuelle, les répétitions, les mises en abyme et les micro-métaphores locales retardent, questionnent, suggèrent et finalement empêchent l’établissement d’une nouvelle métaphore générale qui pourrait polariser les désirs pour les tirer vers quelque chose de plus aérien, de moins étouffé, pourri et pervers. Au lieu de prendre sa belle dans ses bras, Hamlet se prend à la gorge avec son frère dans son tombeau. Le texte aboutit alors à un questionnement concernant l’efficacité même du processus de métaphorisation dans une constellation personnelle et historique donnée.

 

Fantasme œdipien et trahison du désir : Hamlet chez Freud, Lacan et Zafiropoulos

L’interprétation d’Hamlet comme mise en abyme de la structure du mythe œdipien avec échec de l’établissement d’une métaphore paternelle se base, non pas seulement sur le travail de Lévi-Strauss, mais aussi sur les contributions de Freud, Lacan et Zafiropoulos. Leurs travaux éclairent successivement la structure de la pièce ainsi que ses différentes composantes. Si le regard qu’ils portent sur Hamlet n’est pas identique, les trois théoriciens sont les chaînons d’une même chaîne dans la mesure où chacun enrichit son travail avec celui de son aîné.

Le la, comme souvent, est donné par Freud qui commente la relation entre Œdipe Roi et Hamlet dans son Interprétation des rêves :

 

Enraciné dans le même sol qu’Œdipe Roi est une autre grande création poétique tragique, le Hamlet de Shakespeare. Mais dans le traitement différent du même matériel se révèle toute la différence dans la vie psychique [Seelenleben] des deux périodes culturelles très éloignées, la progression séculaire du refoulement dans la vie psychique [Gemütsleben] de l’humanité. Dans l’Œdipe, le fantasme désireux [Wunschphantasie] sous-jacent de l’enfant est, comme dans un rêve, tiré à la lumière et réalisé ; dans le Hamlet il est refoulé, et nous en prenons connaissance – similaire à ce qui est le cas dans une névrose – seulement à travers les effets d’inhibition qui en découlent (Freud (1900), p. 183).

Freud souligne par la suite que les atermoiements d’Hamlet ne sont pas le résultat d’un trait de caractère inné, mais qu’ils sont la conséquence de la tâche particulière, et en effet insoluble, qui lui a été impartie par le spectre paternel. Hamlet sait agir avec toute l’impétuosité et l’insouciance calculatrice d’un prince de la Renaissance, dit Freud, qui donne en exemple l’exécution de Polonius caché derrière le paravent ou l’organisation de la mise à mort de Rosencrantz et Guldenstern. Ce qui empêche la réalisation de la demande du spectre royal est la structure de la demande elle-même :

Hamlet peut tout, sauf parachever la vengeance auprès de l’homme qui a écarté son père et qui a pris sa place à côté de sa mère, auprès de l’homme qui lui met en scène la réalisation de ses rêves enfantins refoulés (ibid.).

Le fantasme refoulé d’Hamlet protège Claudius car il le met lui-même en scène. Tuer Claudius qui incarne son fantasme serait, au niveau inconscient, s’attaquer à soi-même. Ainsi la revanche demandée par le père mort doit en permanence être déplacée. En effet, le dénouement qui n’en est pas un n’advient que dans un carnage confus qui mélange meurtres, changement de places et duel pervers s’apparentant à un suicide assisté. Le blocage de la situation – et la tragédie d’Hamlet est avant tout le déploiement lent et pénible d’un blocage inextricable – est dû au fait que le Prince ne peut jamais se défaire de son fantasme inconscient. Ce dernier est verrouillé par la trop grande attirance qu’il éprouve pour sa mère, la « génitale » (Lacan) Gertrude. Zafiropoulos rappelle à cette occasion la fonction de protection du fantasme dans la théorie lacanienne :

 

… pour Freud le paradigme du fantasme (« Un enfant est battu ») est inconsciemment motivé par le désir de l’enfant d’un commerce sexuel avec le père, tandis que chez Lacan il est une construction protégeant l’enfant d’être l’objet de la jouissance de la mère (Zafiropoulos (2017), p. 80).

Le fantasme joue alors un rôle essentiel dans l’auto-préservation du psychisme face à la menace de dépècement par une « mère crocodile ». Mais le corrélat de la préservation de l’unicité psychique par le fantasme œdipien est de s’imaginer être le phallus de la mère. Cette « étrication phallique », malgré ses satisfactions imaginaires, a l’inconvénient d’empêcher la réalisation d’un désir plus structuré. Cette réalisation exigerait justement l’existence d’une métaphore paternelle capable de briser le fantasme – ce qui correspondrait à la castration symbolique – et d’orienter le désir. Dans des cas plus heureux, le désir est alors réalisé en passant par une identification symbolique avec le père et mène à la jouissance d’une femme autre que la mère pour fonder à son tour une famille, faire prospérer sa progéniture et continuer la lignée. Ceci résume également le plus profond désir d’Hamlet. Seulement son fantasme et l’impasse du rapport avec son oncle l’empêchent d’avancer vers sa réalisation :

La bascule du désir que constitue l’érection fantasmatique… du point de vue du mâle – rend d’une certaine manière antinomique l’amour… et la puissance sexuelle, puisque être tout entier érigé comme phallus de l’autre interdit naturellement cette nuance d’agressivité ou d’activité qui suppose que le mâle ‘impose’ à la femme sa jouissance. Être au service de la femme, comme on le comprend bien, interdit d’en jouir (Zafiropoulos (2017), p. 83).

Zafiropoulos explicite ici l’un des axes principaux de l’interprétation d’Hamlet faite par Lacan. Le prince est divisé par un double désir. D’un côté, il est incapable de se libérer de son désir d’être le phallus de sa mère, de l’autre il veut bien l’avoir lui-même, le phallus. « Être ou ne pas être ? », la tirade la plus connue du fameux monologue d’Hamlet, devrait donc, dans une approche analytique, être lue de la manière suivante : « Être ou avoir… le phallus ? » Lacan souligne l’opposition implacable de ces deux choix :

 

Si le sujet est le phallus — cela s’illustre tout de suite sous cette forme, à savoir comme objet du désir de sa mère — eh bien, il ne l’a pas, c’est-à-dire qu’il n’a pas le droit de s’en servir, ce qui est la valeur fondamentale de la loi dite de prohibition de l’inceste. D’autre part, s’il l’a, c’est-à-dire qu’il a réalisé l’identification paternelle, eh bien, une chose est certaine, c’est que ce phallus, il ne l’est pas (Lacan (2013), p. 532).

Et :

Le prince est… narcissiquement piégé dans [sa]… passion d’incarnation phallique puisque le sujet, « comme l’enseigne la doctrine depuis toujours, veut maintenir le phallus de la mère (Lacan, p. 280) », quitte à lui sacrifier son propre objet de désir (ici la belle Ophélie) (Zafiropoulos (p. 103).

 

Les atermoiements d’Hamlet résultent donc de son fantasme œdipien inconscient d’être le phallus de sa mère. Son nom lui-même, Hamlet – « ham-let » se traduit par « petit jambon » – renvoie à ce destin phallique. Il serait faux d’affirmer qu’il y tient mordicus, et encore plus qu’il s’y épanouit. Hamlet se méfie intensément du désir de sa mère autant que de son désir propre. Mais il ne peut pour autant se défaire de son fantasme. Trop longtemps, il veut être et avoir… le phallus. Cette incapacité à trancher constitue la raison de l’arlésienne des déclarations d’intentions d’action et les auto-accusations mélancoliques du renvoi. Nous savons depuis « Deuil et mélancolie » de Freud (1917) que cette compulsion à se dénigrer soi-même est le signe de la mélancolie entretenue par un Surmoi féroce qui résulte de la métamorphose internalisée de l’objet perdu. Il n’est pas nécessaire de chercher plus loin : la vive douleur causée par la perte du père aimé et le deuil rendu impossible par le remariage hâtif de la mère s’articulent pour forcer un retour de la figure paternelle sous la forme d’un spectre vengeur dont la demande impossible se tourne vers le héros.

Le piège fonctionne jusqu’au moment où Hamlet réalise devant le tombeau ouvert de la belle Ophélie qu’il ne l’aura jamais plus, le phallus. C’est sa castration à lui. Lacan soulève magistralement ce moment de cristallisation d’Hamlet quand il devient de manière imparfaite, certes, mais avec une rage authentique, acteur de son propre destin : « This is I, Hamlet the Dane ! » C’est le point culminant de la pièce. Ici, Hamlet donne le meilleur de lui-même. Pour rester dans le cadre fourni par Lévi-Strauss, ce moment aurait pu être celui de l’établissement d’une nouvelle métaphore. Cet acte langagier majeur se situe au même point de la structure du récit que la crevaison des yeux d’Œdipe, qui par ce geste se marque pour toujours comme fils de Laïus. Cependant, le cri d’Hamlet, aussi grande soit sa force libératrice sur le moment, laisse apparaître deux différences majeures avec l’acte d’Œdipe.

D’abord, Hamlet s’insère bien dans une forme de filiation symbolique. « Je suis le Danois » doit être entendu comme « je fais partie de la lignée royale danoise ». Mais l’identification symbolique reste générale : aucun père n’est désigné de manière implicite ou explicite. Encore une fois, Hamlet rechigne à rompre définitivement avec son oncle Claudius. Notons au passage que ce dernier ne lui facilite pas la tâche. On a déjà dit qu’il incarne le fantasme du prince. De plus, par calcul ou par conviction, le Roi prend toujours grand soin de rassurer son neveu quant au statut royal de ce dernier et évoque régulièrement la perspective de lui succéder. Le fait de se réclamer de lignée royale danoise reste donc une identification symbolique à demi, ou plutôt double, ce qui revient au même. Objectivement, la tâche d’Hamlet n’est pas simple. Car refonder la métaphore paternelle passerait obligatoirement par l’imposition d’un Nom-du-père. Ce nom est pourtant le même pour Hamlet senior et pour Claudius, son frère. Éliminer le deuxième pour rétablir la mémoire et le bon nom du premier demanderait quelques opérations sémantiques adroites. Les drames royaux de Shakespeare abondent de conflits analogues avec des solutions variées et plus ou moins réussies.

Ensuite, l’identification symbolique reste viciée par la captation imaginaire : « C’est Moi ! ». Même dans son meilleur moment, et c’est un grand moment, Hamlet reste happé par le fantasme d’être le phallus plutôt que de l’avoir. Incapable de faire le deuil du phallus qu’il continue d’incarner, il n’est pas entièrement « libre de [son] acte (Zafiropoulos (2017), p. 113). » Le fait qu’Hamlet pousse son cri dans un tombeau le rapproche encore un peu plus du spectre de son père.

Malgré cette externalisation massive de sa tension psychique, Hamlet n’arrive plus à dépasser la séparation de son désir qui le hante tout au long de la pièce, le désir d’étreindre la belle Ophélie. Son désir était à la hauteur de son objet. Pour prendre toute la mesure de l’attrait de la beauté et du charme d’Ophélie, il faut prononcer son nom en anglais : Ophelia, Ô-philia ! Ô amour ! En incarnant toutes les qualités de l’idéal féminin, Ophélie est l’objet d’amour par excellence. Tout le monde s’y accorde : Hamlet le premier, mais aussi son père, son frère, même le Roi et la Reine avec leur « fair Ophelia » par-ci, « fair Ophelia » par-là. En tant qu’objet d’amour, elle est passive, énigmatique et évanescente, y compris dans sa mort, qu’elle laisse advenir dans une dérive entre suicide et accident. Car son propre désir, qu’elle avait articulé avec finesse et intelligence, était terriblement frustré. C’est elle qui aurait dû prendre la place du phallus auquel le Prince n’arrive pas à renoncer. Avoir frustré le désir de la belle et avoir ainsi cédé sur son propre désir, telle est la faute que nous ne pardonnons pas à Hamlet.

La deuxième différence marquante de l’acte d’Hamlet avec celui d’Œdipe est qu’il est, au-delà de la force de son engagement individuel, au niveau de la logique de la pièce elle-même, déjà trop tard. Les jeux sont faits. Ophélie est morte. Aucune réalisation du désir, aucune délivrance n’est plus possible. On a beau réclamer un geste fort de la part d’Hamlet, cela n’y ferait plus rien. Les conditions objectives permettant qu’un tel acte fondateur ait la signification sociale nécessaire pour établir une nouvelle métaphore paternelle ne sont plus disponibles. Le kairos pour cristalliser l’attente d’un peuple ne se présentera plus. D’ailleurs, la richesse de la construction shakespearienne est telle qu’il n’est pas sûr que le bon moment ne se soit jamais présenté.

La suite se déroule alors précisément dans l’ambivalence que caractérisait le cri dans le tombeau. Hamlet poursuit le semblant d’une identification paternelle en rejoignant l’équipe du Roi dans le duel truqué qui l’oppose à son double, le preux Laërte. La mise en scène artificielle où tout le monde ment prépare l’explosion de la pourriture qui couvait au Royaume du Danemark. Elle aboutit au carnage qui met fin à la lignée royale danoise et, en définitive, à l’existence autonome de l’État lui-même.

 

La défaillance symbolique des pères et le manque dans l’Autre

N’en veut-on pas un peu trop à Hamlet de n’avoir pas réussi à rétablir une forme de vérité et à préserver le trône ? Non seulement il se trouve face à une intrigue objectivement compliquée, mais il reçoit aussi bien peu d’aide de son spectre de père. Ce dernier lui demande de le venger, mais sans contrarier sa mère. C’est une mission impossible dès le départ. Visiblement, le nouveau Roi et la Reine s’entendent très bien. Supprimer le premier ne plaira point à la deuxième. Au-delà de sa demande peu cohérente, le spectre du père d’Hamlet s’accuse lui-même de « noires fautes » qu’il aurait commises et qui devraient être purgées. Hamlet senior — car le Roi mort porte le même nom que son fils, ce qui ne facilite pas non plus la distinction entre identification symbolique et spectralité moïque — fait aussi de son fils le confident de sa vie conjugale. Il lui fait notamment part de son souci quelque peu affété de n’avoir pas voulu laisser le vent toucher sa femme. En quelque sorte, il vide son sac, se débarrasse du passé et passe l’ardoise au fils. Pas facile d’être un bon fils avec un tel père. Zafiropoulos est plus clair encore lorsqu’il écrit : « Les atermoiements d’Hamlet se motivent des péchés du père qui déterminent son errance  (Zafiropoulos (2017), p. 98). »

Plus tôt, l’auteur avait déjà établi un lien entre les inhibitions d’Hamlet junior et celles d’Hamlet senior en affirmant que « la jouissance du fils dépend aussi de cette relation que le père entretient à sa propre jouissance (Zafiropoulos (2017), p. 87). » Plutôt que de le fixer dans une demande impossible qui le condamne à l’impuissance, Hamlet senior aurait dû aider son fils à sortir de sa « prison de verre » du fantasme. Le spectre du Roi mort fait tout le contraire. Il verrouille le fantasme œdipien d’Hamlet en lui demandant de tuer celui qui couche avec la mère. En contrepartie, il lui offre une position de « bon garçon », c’est-à-dire de phallus de papa et maman.

L’ambiguïté d’Hamlet senior est intensifiée par sa nature, ou plutôt par sa non-nature, de spectre. Existe-t-il véritablement comme entité autonome ou s’agit-il d’une hallucination fantasmatique dans laquelle Hamlet junior aurait entraîné Horatio, son ami bien-aimé, et deux fidèles serviteurs ? Notons ici que la Reine ne voit pas le spectre quand il apparaît à Hamlet dans sa chambre. Spectre, fantôme, fantasme et mise en scène théâtrale ne feraient-ils qu’un ?

Le fait que la demande du père mort soit transmise par un spectre entretient sans conteste la confusion entre la dimension symbolique et la dimension imaginaire, « survivance d’un père, devenu pas entièrement Autre, ou pas totalement mort et donc pas totalement symbolique (Zafiropoulos (2017), p. 121). » La condition d’Hamlet aurait été sensiblement différente si la demande paternelle lui avait été transmise, par exemple, dans une lettre adressée à son nom, ou encore sous forme d’une dernière volonté prononcée sur un lit de mort. Zafiropoulos rappelle que la sortie du fantasme et l’accès à la jouissance nécessitent l’identification au père. Hamlet voudrait bien en passer par là. Mais l’identification à un spectre entraîne inévitablement cette spectralisation des motifs du mythe œdipien que la pièce rassemble dans un labyrinthe de miroirs. En résumé, le texte présente par plusieurs biais Hamlet senior comme un père caractérisé par une insuffisance symbolique généralisée.

Mais le Prince de Danemark est-il bien le seul à souffrir de l’insuffisance symbolique de son père ou s’agit-il d’un phénomène plus général ? Dans une première approche, le Nom-du-père en tant que signifiant de l’Autre devrait parfaire la structure signifiante, constituer son « point de capiton ». Mais c’est un signifiant hautement problématique qui se dérobe et établit ainsi une faille, un vide, dans l’Autre autant qu’il le parfait : « Le signifiant de l’Autre avec la barre – S(Ⱥ)… Le signifiant qui fait défaut au niveau de l’Autre, telle est la formule qui donne sa valeur la plus radicale au S(Ⱥ) (Lacan (2013), p. 353). »

L’incomplétude de l’Autre maintient donc un rapport avec le Nom-du-père en étant son signifiant imprononçable. C’est une notion solidement établie dans la tradition judéo-chrétienne, et notamment véhiculée dans la parabole du Buisson ardent. Cette incomplétude symbolique est d’ailleurs la seule garantie du poids libidinal des signifiants et fonde ainsi la fonction du phallus.

Cette incomplétude symbolique de l’Autre nécessitée par des besoins structuraux s’actualise de manière plus personnelle dans le rapport que chacun entretient avec son propre patronyme. On a déjà vu la position difficile d’Hamlet vis-à-vis de ce nom qui appartient à égale mesure au père mort et à l’oncle scélérat. Si personne ne maîtrise – ni ne connaît d’ailleurs, n’en déplaise aux ésotériques – le Nom-du-père, personne ne dispose non plus d’une liberté totale face à son patronyme. C’est à ces deux niveaux, universel et intime, qu’il faut lire le passage suivant :

 

Le signifiant caché, celui dont l’Autre ne dispose pas, est justement celui qui vous concerne… C’est à savoir, la part de vous qui a été sacrifiée…symboliquement… cette part de vous qui a pris fonction signifiante… Il s’agit très exactement de cette fonction énigmatique que nous appelons le phallus. Le phallus est ici ce quelque chose de sacrifié de l’organisme, de la vie, de la poussée vitale, qui se trouve symbolisé (Lacan (2013), p. 355).

 

Il s’agit donc d’abord d’un phénomène structurel et ainsi universel. Il dépasse le cas individuel d’Hamlet, même si sa fatalité inéluctable se manifeste chez lui de manière particulièrement dramatique. « L’irrémédiable est dans l’Autre, car dans l’Autre quelque chose manque » résume Zafiropoulos (Zafiropoulos (2017), p. 99). Mais la question demeure : si le manque irrémédiable dans l’Autre d’Hamlet est évident, qu’en est-il pour Œdipe ? Le chapitre précédent a montré comment Œdipe rétablit par un acte extrême la métaphore au sens propre comme au figuré, c’est-à-dire au niveau de la structure du texte comme au niveau de son destin individuel et de celui de sa ville, Thèbes. Par son acte hors norme, il cesse d’incarner le phallus et prend la place du signifiant qui manque à l’Autre. Cela fait de lui le paradigme du héros mythique, et celui de la psychanalyse en particulier. Mais pour accomplir cet acte qui échappe à Hamlet, c’est-à-dire la réparation de la structure symbolique, Œdipe n’a-t-il pas été favorisé par des conditions de départ plus favorables ?

Zafiropoulos, pour sa part, maintient que les Anciens auraient en effet joui d’un horizon symbolique plus dégagé quand il écrit que la « pourriture… au cœur de l’Autre des Modernes » établirait une distinction fondamentale avec l’Autre des Anciens. A l’origine de cette « dégénérescence subjective » des Modernes serait notamment une défaillance des pères. Œdipe, par contre, « caractère paradigmatique pour les Anciens, libres de leurs actes parce que sans fantasmes (Zafiropoulos (2017), p. 90) » aurait pu échapper aux effets d’inhibition de la névrose.

Mais les trajectoires contrastées d’Œdipe et d’Hamlet sont-elles vraiment dues à des différences relatives à la performativité symbolique de leurs pères et, par ricochet, à la complétude de leurs Autres respectifs ? Une lecture légèrement plus ample révèle vite que la différence décisive entre les deux textes ne réside point dans la culpabilité respective des pères. Laïus, le père d’Œdipe, n’offre à cet égard pas de meilleures conditions de départ qu’Hamlet senior, mort dans « la fleur de ses péchés ». Il s’avère en effet que Laïus, « le gauche », avait lourdement péché lui-même avant de refiler ensuite cette dette à son fils. Un temps exilé à Mycènes, il avait en effet accepté d’enseigner la conduite de char à Chrysippe, le fils de son hôte Pélops. Laïus avait alors enlevé et violé son élève. La malédiction qui prédisait qu’il serait lui-même tué par son fils était la conséquence directe de cette transgression massive. La malédiction du père devenait ainsi fatalement celle du fils. Avec une belle efficacité, le mythe ne relate pas seulement la nécessité que le péché soit expié et la dette soldée, mais aussi que la nature du paiement corresponde à la nature de la transgression. L’inconscient, c’est la répétition (selon le livre éponyme de J.-D. Nasio). Laïus est alors abattu par son fils quand, après un échange acrimonieux, il cherche à forcer avec son char le passage à travers l’étroite ouverture rocheuse qui le sépare de son fils en vagabondage.

Au niveau de la performativité symbolique paternelle, Œdipe n’est donc pas mieux placé que Hamlet. Les voies différentes qu’ils empruntent ne dépendent que d’eux-mêmes et de la contingence de leurs contextes historiques. La faille dans l’Autre est tout aussi insupportable dans Œdipe Roi que dans La tragédie d’Hamlet. Et pourtant l’un avance, certes dans les ténèbres, pour réparer le symbolique abîmé quand l’autre déplace la question. Dans un autre contexte, Lacan identifie ce mouvement latéral de déplacements et de renvois successifs face à la faille dans l’Autre à la névrose :

 

Ce devant quoi le névrosé recule, ce n’est pas devant la castration, c’est de faire de sa castration ce qui manque à l’Autre. C’est de faire de sa castration quelque chose de positif, à savoir la garantie de la fonction de l’Autre, cet Autre qui se dérobe dans le renvoi indéfini des significations, cet Autre où le sujet ne se voit plus que destin, mais destin qui n’a pas de terme, mais destin qui se perd dans l’océan des histoires (Lacan (2004), p. 58).

 

Hamlet est ce névrosé qui, pour des raisons tant personnelles que politiques, n’arrive pas à faire de sa castration quelque chose de positif. La faille dans l’Autre reste ouverte, la pourriture s’y installe et ainsi le destin individuel d’Hamlet se perd dans l’océan des histoires. Shakespeare montre avec génie que la fractalisation des motifs du mythe suite à leur transformation en fantasme ne connaît pas de limite naturelle. Dans ce monde qui n’est plus capable de construire une transcendance, des métaphores locales pour la construction subjective surabondent, mais en fin de compte aucune d’elles n’est porteuse. C’est la sémiosis illimitée.

L’économie théâtrale veut que la pièce compte cinq actes. Mais au niveau de la logique interne de la trame, l’auteur aurait facilement pu continuer la ronde des atermoiements et des intrigues telles que le jeu de cache-cache avec Rosencrantz et Guldenstern, ou celui des mises en abyme à l’aide de médiateurs finalement inefficaces tels Yorick ou le fossoyeur. Sans doute Shakespeare en aurait-il fait des épisodes profonds, divertissants et instructifs, mais il est également clair qu’aucun épisode supplémentaire n’aurait permis de dénouer le fil emmêlé du destin d’Hamlet. Car à aucun moment Hamlet n’aurait été capable de dépasser ses barrières internes et externes pour apporter ce qui manque à l’Autre. Lacan souligne l’absence de toute possibilité de rachat ou de rédemption dans ce théâtre des miroirs où il n’y a plus ni justice ni pardon. Les crimes sont inexpiables et les dettes impayables.

Pour avancer, il aurait fallu autre chose. Ce qui parfait la métaphore qui, tel le totem freudien, fonde le lien social et garantit ainsi la fonction de l’Autre, ce n’est pas la reconnaissance de sa propre dette symbolique. Hamlet y était prêt comme la plupart des hommes. Une lucidité qui reconnaît la logique du do ut des qui régit le monde de l’échange y suffit. Pour établir une métaphore qui puisse polariser la structure signifiante de toute une communauté, il faut aller plus loin. La Tragédie d’Hamlet est sur ce point une création poétique terriblement efficace. Elle effectue, par la négative, la démonstration implacable qu’aucune métaphore paternelle ne peut être établie et qu’aucun manque dans l’Autre ne peut être comblé sans la reconnaissance et le règlement de la dette symbolique du père.

Conclusion : sur la possibilité d’un acte politique

Freud, Lacan et Zafiropoulos ont établi que le fantasme inconscient d’Hamlet est le mythe d’Œdipe. Le refoulement produit alors ses effets d’empêchement. L’actualisation du mythe, car il n’y en a qu’un, chez Sophocle et chez Shakespeare, se distingue alors de trois manières – selon le niveau de conscientisation des forces en jeu, selon la stabilité de la structure du mythe et selon le contexte historique et politique. Il est évident que ces trois enjeux entretiennent des relations étroites, mais il convient, pour des raisons d’exposition, de les traiter chacun à leur tour.

Au niveau de la conscientisation, les deux héros, Œdipe comme Hamlet, s’ignorent et sont mus par des forces inconscientes. Cependant, leur non-savoir n’est pas de même nature. Œdipe ne sait rien jusqu’au moment où le voile qui cachait le mystère de ses origines soit levé et où, soudain, il sache tout. Cette irruption du savoir avait été préparée par les prophéties de Tirésias le sage.

Hamlet, dès le début, est conscient d’un malaise personnel et ambiant dont il croit percevoir les contours, mais il reste essentiellement avec ce savoir partiel jusqu’à la fin de la pièce. La confusion de la boucherie finale n’est que la confirmation du savoir confus et partiel qu’Hamlet détient concernant les forces en jeu. Aucun Tirésias ne vient lui éclairer la situation. Au lieu de cela, il se trouve face aux manipulations de Polonius ou, au mieux, face au bon sens d’Horatio qui a l’inconvénient de ne se manifester à chaque fois qu’après coup quand les jeux sont faits.

La différence entre les deux héros quant à la conscientisation de leur situation n’est évidemment que le reflet de la différence relative à la solidité de la structure du mythe à laquelle chacun est exposé. Comme discuté dans la deuxième section, cette structure est solide dans Œdipe Roi et éclatée dans Hamlet. Selon la lecture de Lacan, c’est la conséquence du passage de l’acte au fantasme. Il s’y joue la solidité de la métaphore paternelle. Les deux textes sont admirables pour engendrer des formations psychologiques, mais leur procédé est très différent. Sophocle bâtit une seule grande métaphore avec quatre macroéléments qui se font face dans une double structure biface dans laquelle la paire « inceste/meurtre » est opposée à la paire « monstre bisexuel/mutilation » dans laquelle chaque membre de l’audience se retrouve.

 

Shakespeare, par contre, construit une mise en abyme par miroirs successifs qui happe le spectateur ou le lecteur d’une tout autre manière. Si le théâtre dans le théâtre en est l’expression la plus évidente, les séries de fils et de pères se prolongent déjà individuellement vers l’infini. Pour les fils se font alors miroir Hamlet, Laërte, Horatio et Fortinbras junior ainsi que les camarades Rosencrantz et Guldenstern. Pour les pères, tous marqués par leurs manquements, il y a Hamlet senior, Claudius, Polonius et Fortinbras senior. Cette virtualisation dans la spectralité des miroirs est à nouveau une fonction du passage au fantasme.

Le refoulement et les déplacements qui en résultent contrastent alors avec la radicalité fascinante des Labdacides, l’auto-aveuglement d’Œdipe ou l’entrée libre d’Antigone dans son tombeau. On l’a dit, Œdipe, en se perçant les yeux, s’arrache à la dimension imaginaire pour entrer entièrement dans le symbolique. Son geste démesuré peut ainsi rétablir la Loi fondamentale, celle de l’interdiction de l’inceste, qui est pure structure. Œdipe rétablit la métaphore paternelle en affirmant de manière irréversible « l’homme de cette femme était mon père. »[1] Il n’est pas possible pour Hamlet de produire un geste équivalent.

Mais malgré la fragilité des formations métaphoriques passées en revue et malgré l’impasse sanglante du duel truqué, La tragédie de Hamlet ne finit pas, du point de vue de l’effet clinique, dans la noirceur. Le rideau tombé, le spectateur, lui, n’est pas abandonné à sa détresse et à sa solitude. Au contraire, il se sentira lucide, ressourcé. Quel est ce miracle du génie de Shakespeare ? Le dense défilé d’offres métaphoriques éphémères de Hamlet lance le spectateur dans une recherche interprétative intense. Hamlet est d’abord un engin pour produire des interprétations, une qualité bien captée dans le titre de la pièce de Heiner Müller, Hamlet-machine. La substitution répétée des formations métaphoriques imparfaites devient le moteur de la pièce. Hamlet met ainsi en pratique de manière particulièrement nette le constat de J.-D. Nasio :

Le signifiant métaphorique, sous l’exercice de l’action interprétative, représentera – de même qu’il cessera de représenter – le sujet pour laisser son statut aux autres. L’effet de l’interprétation sera la volatilisation de la métaphore « première » et d’autres jailliront au sein d’une combinaison de substitutions (Nasio (1971), p. 117).

La substitution des métaphores qui se volatilisent l’une après l’autre garantit l’effet clinique de la pièce. A la place de la métaphore stable d’un Roi qui se sacrifie, Shakespeare offre au spectateur un travail d’interprétation permanent. Il sait déjà que l’effet de l’interprétation est la seule voie de salut du sujet moderne.

Si l’on considérait exclusivement le mythe d’Œdipe ou sa reprise fantasmée dans Hamlet comme les matrices d’une clinique individuelle, on pourrait s’arrêter là. Ce serait pourtant négliger la dimension historique et politique de ces deux textes. Si la forme de leur enracinement respectif dans la contingence historique diverge, chacun possède une portée politique très forte. Les comparer sous cet angle est instructif. D’abord la prise en compte de la dimension historique protège contre un encensement trop enthousiaste des actes héroïques des Anciens. Privés de leur signification sociale et de leur fonction précise dans le contexte de la vie publique de la polis et de leur fonction performative dans le théâtre de la Grèce antique, une répétition inconsidérée des actes d’Œdipe ou d’Antigone serait de l’ordre de la psychose. Ceci ne s’applique pas seulement au niveau de tout individu réel, mais également au niveau du texte poétique. Hamlet se crevant les yeux serait un terrible malentendu à la mesure du suicide d’Ophélie : un gâchis désolant qui n’avancerait à rien.

La fantasmatisation du mythe œdipien joue ici tout son rôle protecteur. Hamlet, le moderne, retarde grâce à son fantasme le passage à un acte insensé. Il substitue à l’acte, au sens littéral comme figuré, sa mise en scène. Évidemment de tels déplacements, s’ils font gagner du temps, ne résolvent rien. Lacan a raison quand il écrit que la Tragédie d’Hamlet correspond à « un lent cheminement vers la castration nécessaire » (Lacan (2013), p. 296). Il y a ici, au-delà de la fractalisation des motifs, une homologie structurelle avec le mythe d’Œdipe. Mais le vrai drame d’Hamlet et sa différence radicale avec Œdipe Roi tient au fait que la castration, quand elle advient, n’est plus significative et ne s’inscrit plus dans aucune métaphore.

Le Hamlet de Shakespeare est la mise en scène du combat d’un homme avec son fantasme œdipien. Pour le mettre en scène, le génie de Shakespeare a créé une structure spectrale où chaque action possible est neutralisée par son double et se dissout ainsi dans la virtualité. Alors la question n’est plus de savoir si le héros aurait les reins suffisamment solides pour passer à l’acte. Quel acte ? Tuer le père ? Le père réel, le père imparfait, l’oncle ? Pour quoi faire ? Pour assouvir un fantasme ? Pour ajouter un spectre de plus à ceux qui rôdent déjà ? L’empilement des cadavres à la fin de l’acte V n’avance à rien, mais marque la fin d’un monde.

Le fantasme dont il est question est le fantasme d’un Prince. D’autres vies dépendent de sa résolution. Celle-ci n’advient pas et le drame qui en résulte dépasse l’impasse personnelle. L’interprétation la plus charitable serait que les morts d’Hamlet, du Roi et de la Reine font table rase du passé. L’acte d’Hamlet, s’il s’agit d’un acte, laisserait alors place à celui qui a un rapport simple et pragmatique à la dette du père. Dans le conflit entre le Danemark et la Norvège, le jeune Fortinbras réussit là où son père avait échoué. Si Shakespeare laisse planer le doute sur la question si cette réussite dépasse la simple dimension militaire, on sait avec certitude qu’au contraire de la Thèbes d’Œdipe, le Danemark d’Hamlet ne sera pas sauvé. Conquis par ses ennemis historiques, il cessera définitivement d’exister comme entité autonome.

Est-ce le seul résultat de la défaillance d’un homme incapable de solder les fautes de la génération précédente ? Lacan souligne le rôle du temps historique dans Hamlet. Le héros est toujours trop tard ou trop tôt. Jamais le temps n’est accompli, jamais le kairos pour l’acte décisif ne se présente. Thèbes, accablée par la peste, attendait une réponse de son Roi. Cette attente avait été préparée par les prophéties de Tirésias. À chaque moment, les actions d’Œdipe, son exploit devant le Sphinx, son péché et son automutilation rejaillissaient immédiatement et massivement sur sa ville.

La pourriture dans l’État de Danemark est plus diffuse, même si les actions d’Hamlet ont aussi à chaque fois leur dimension politique. Plus diffuse est aussi l’attente qui pèse sur lui. Par moments, on ne sait même plus si Hamlet entraîne son monde dans une crise d’adolescence tardive ou s’il est vraiment le porteur d’un espoir de renouveau. Mais indépendamment des affres individuelles du Prince, les conditions objectives d’un acte décisif qui articulerait l’intime et le politique ne se dessinent jamais. À la place de la sagesse d’un Tirésias pour lui frayer un chemin, Hamlet se retrouve avec la raisonnabilité courtoise bien pesée et subtilement corrompue de Polonius. S’il fait vite exploser cette dernière, son geste téméraire ne fait que renforcer sa solitude.

Ceci pose la question de savoir ce qui aurait pu sauver l’État de Danemark. Quel acte aurait pu être suffisamment significatif pour établir, de manière éphémère ou partielle, une éthique, un sens, une justice ? Shakespeare, on le sait, n’apporte pas de réponse. Mais il pose la question avec emphase. La réponse ne peut se trouver dans un contexte historique donné. Elle dépend de « l’évolution historique du sujet de l’inconscient » (Zafiropoulos (2017), p. 124) qui ne se révèle qu’à travers une analyse patiente des structures qui déterminent l’efficacité symbolique à chaque moment historique donné. Ce qu’on peut ajouter, c’est que l’organisation de l’espace symbolique n’est jamais facilitée par la présence de « maîtres obscènes » (Slavoj Žižek). Claudius, qui fait accompagner ses jouissances par des coups de canon pour que tout le monde soit au courant, fait partie de ceux-là, mais il y en a d’autres.

La question qui rend la lecture d’Hamlet saisissante, en 1958 comme aujourd’hui, est la suivante : quel serait, dans le vécu d’un contexte historique concret, un acte politiquement signifiant ? Comment établir une légitimité qui permettrait de fédérer une communauté, une polis, un peuple, un État ? En dynamitant les vérités intemporelles d’Œdipe Roi et en réarrangeant les pièces éparpillées avec grand art dans un kaléidoscope qui se recompose différemment à chaque fois qu’on le regarde, La tragédie d’Hamlet pose la question de la portée symbolique de l’acte politique au-delà de la question de la souffrance névrotique, qui n’en est d’ailleurs pas indépendante. Cette question de la possibilité d’un acte politique véritable, c’est-à-dire d’un acte ayant une prégnance symbolique, s’impose avec la même urgence au faîte de l’empire élisabéthain du début du XVIIe siècle, durant la transition douloureuse entre la VIe et la Ve République, ainsi que face à la confusion des populismes virtuels d’aujourd’hui.

Paris-Munich, mai 2020.

 

[1] Au niveau de la structure logique, Œdipe, le héros, accomplit ainsi précisément le même acte que les frères de la horde de Totem et tabou qui s’accordent sur le fait que l’ancien chef de la horde originaire était leur père. Le fait qu’Œdipe accomplit seul cet acte l’expose à l’ambiguïté de la figure du héros. Car pour que l’acte, aussi radical soit-il, soit significatif il faut qu’il reçoive validation sociale. La scénarisation de la tragédie grecque et notamment le chœur assurent alors précisément cette validation de la significativité sociale de l’acte héroïque qui dans Totem et tabou est établie par le mimétisme instinctif des frères de la horde.

Références

  1. BENJAMIN (2007), « Analogie und Verwandtschaft » dans Kairos : Schriften zur Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, p. 68-70.

  2. FREUD 1900), Die Traumdeutung, Leipzig et Vienne, Franz Deuticke.

— (1895, 2015), « Manuscrit G du 7 janvier 1895 : La mélancolie » dans S. FREUD (2015), Naissance de la psychanalyse, Paris, PUF, p. 91-97.

— (1917), « Trauer und Melancholie » dans Sigmund Freud (1975), Psychologie des Unbewußten, Studienausgabe vol. III, Frankfurt, S. Fischer p. 193-216.

  1. LACAN (2004), Le Séminaire X : L’angoisse (1962-63), Paris, Le Seuil.

  2. LACAN (2013), Le séminaire VI : le désir et son interprétation (1958-59), Paris, La Martinière.

Cl. LEVI-STRAUSS (1955), « The Structural Study of Myth », The Journal of American Folklore 68 (270), p. 428-444.

Cl. LEVI-STRAUSS (1958), « La structure des mythes », dans Anthropologie structurale, Paris, Agora, p. 227-255.

  1. MÜLLER (1979), Hamlet-machine : Horace, Mauser, Héraclès 5 et autres pièces, Paris, Les éditions de minuit.

J.-D. NASIO (1971), « Métaphore et phallus », dans Leclaire, Serge, Démasquer le réel : un essai sur l’objet en psychanalyse, Paris, Le Seuil, p. 101-117.

J.-D. NASIO (2012), L’inconscient, c’est la répétition ! Paris, Payot.

  1. VANIER (2001), « Some Remarks on the Symptom and the Social Link : Lacan with Marx », Journal for the Psychoanalysis of Culture and Society 6(1), p. 40-5.

  2. ZAFIROPOULOS (2003), Lacan et Lévi-Strauss ou le retour à Freud 1951-1957, Paris, Puf.

  3. ZAFIROPOULOS (2017), Les mythologiques de Lacan : La prison de verre du fantasme : Œdipe roi, Le diable amoureux, Hamlet, Paris, Erès.

  4. ZALOSZYC (2014), « Commentaire des chapitres 16-17-18 du séminaire 6 », Bordeaux,10 janvier 2014, http://www.psychanalyse67.fr/accueil/myFiles/145_898F8532F2.pdf


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PSICOANALISIS Y ESCRITURA. SEGUNDA PREGUNTA – Dr Guillermo BATISTA

Viviana Rosenwit : Ya que usted trae el tema, me gustaría que despliegue un poco más acerca de ese « decir imposible » y su relación a la escritura. Invirtiendo la cuestión planteada, ¿no será que el decir se sostiene en una escritura imposible de cernir ?

Creo que su pregunta apunta a un problema muy preciso y, además, estrictamente clínico. La reformulación que usted realiza de la premisa inicial de trabajo, pienso que debería tomarse como la reorganización de una proposición y ser desplegada bajo la luz de un análisis según las categorías de la lógica modal. Es un enorme logro de Lacan, a mi juicio, el haber imbricado la lógica formal (estructuración de lo particular y lo universal) con la categorización fáctica y semánticas de la lógica modal; para ésta, una proposición cierta se dilucida en relación a sus modulaciones semánticas con respecto a un hecho. Es un ejemplo del genial estilo barroco de Lacan: poder armonizar el abstraccionismo de Aristóteles con el áspero empirismo de Wittgenstein, en su esfuerzo de esclarecer la lógica de la cura, la cual acontece en un registro fenoménico, en ocasiones bastante aparatoso y variopinto. Esta es la veta que le encuentro a su pregunta, nos invita a dilucidar el entramado entre el decir y la escritura en relación a un hecho; abriéndonos los engranajes lógico – semánticos de lo necesario, lo posible, lo contingente y lo imposible. Como decía, estas herramientas conceptuales son una brújula invalorable en la abigarrada fenomenología de la experiencia; grosso modo, pienso que lo necesario (lo que no deja de escribirse) lo encontramos en el síntoma articulado al automatismo de repetición (automaton), lo posible (lo que deja de escribirse) es consustancial al carácter discontinuo de las formaciones del inconsciente, lo contingente (lo que deja de no escribirse) emerge en el espanto de lo imprevisto, de la sorpresa, de lo cual los neuróticos nos defendemos, como podemos, con la ilusión de Otro consistente, gracias al tamiz del fantasma y al goce que éste condensa; y lo imposible ( que es el corazón de su pregunta, no deja de no escribirse) qué puede hacer que el sujeto hable, ame, odie, escriba, copule, mate o enloquezca, pues es títere y producto de la más radicalmente « incernible » de las escrituras: aquellas que den cuenta de la proporción sexual, que no existe. Esta es una de sus caras, Lacan aisló al menos cinco caras de lo Real; una de ellas, la tuche, el encuentro, puede, y de hecho lo hace siempre, poner a trastabillar es decir; hecho de inmensa relevancia clínica, pues es el goce que ata la angustia a la palabra ante algo que no tiene escritura cernible.

Una pequeña viñeta clínica para intentar ilustrarlo: a una hora ya tardía, recibo una llamada de un hombre, con voz crispada y sollozante, quien, después de un rato de balbuceos incomprensibles, logra hacerme entender que quiere una cita, No lo tomé por un bromista de mal gusto, o algo peor, pues quien le dio mi número era alguien de fiar, Le pedí que tomara un taxi y que viniera al consultorio de inmediato. Entre sorprendido y contrariado cuelga; en media hora se presenta un hombre maduro en un estado calamitoso: lívido, tambaleante, sudoroso, con el respirar entrecortado de quien retiene el llanto por pudor, impidiéndole, a su vez hablar. Después de hacerle varias preguntas, al percatarse de que solo oiría un « no se qué me pasa« , dicho con un tenso decoro que hacía cada vez mas inverosímil la situación; me aseguró de que no hubiese una condición de urgencia orgánica, el contacto físico lo comenzó a calmar un poco. Se trataba de un estado de angustia masiva. Después de una fuerte dosis de ansiolíticos y media caja de cigarrillos, recobró la compostura y, visiblemente avergonzado, atropellándose en disculpas por la hora, las molestias, quería irse. Se le dijo calurosa pero firmemente que no, que deseaba saber qué lo había puesto en ese estado. Me detengo en los detalles un tanto dramático-teatrales de este primer encuentro, que se prolongó por más de dos horas, por lo que este sujeto me está enseñando en relación a su pregunta. Estos « ataques de pánico » los sufrió por vez primera hace unos cuatros años, tras la muerte súbita del más querido de sus amigos; « yo sabía que x iba reventar por la vida que llevaba« , me dice, esbozando una sonrisa (aquí comencé a inquietarme). Había intentado toda clase de terapias, incluso un análisis, psicofármacos, sin resultado. Un día, ojeando en una librería (se trata de alguien muy culto), encontró un libro escrito por un psiquiatra titulado « A usted no le pasa nada« , lo leyó de un tirón y, santo remedio, dejó a esos « charlatanes« . Y que pasó hoy, ¿entonces?, le pregunto. « No lo sé, no sé qué me pasa « .

Su historia parecía una novela llena de peripecias desde que, aun joven, tuvo que dejar su país natal. Lo curioso es que este sujeto parecía haber sido una marioneta de los « malos encuentros« , de hechos tan graves que lo obligaban a cambiar de analizante; ese sujeto paradójicamente feliz que nos cuenta sus pesares, dolores y miserias, pero que, al comienzo, se guarda bien de hablar de aquello que sostiene sus quejas, a veces dramáticas; vale decir, la dimensión de su fantasma, donde se sostiene en la ilusión de estar siempre « a la hora » del encuentro con lo más íntimo y particular de su ser : su goce; este puede, antes de un análisis, ser el índice de su estilo, su forma de ser, su manera de proceder, ¿y, por qué no? Escribir. Quién no se preguntado sobre lo que sostiene el estilo de algunos escritores que han hecho hitos (Kafka, Cesar Vallejos), ¿por ese algo enigmático que los hace tan singulares?, a ese lo podemos llamar goce.

¿Y el analista?, podemos encontrar respuestas lapidarias en Lacan, como en el resumen del Seminario El Acto psicoanalítico: « El analista se hace de objeto a « . Quizás para muchos lectores esta criptica sentencia no diga mucho. Para ser más explícitos, del lado del analista lo que está en acción, operando, es su deseo, su deseo de analista. Ese deseo que Lacan califica como « no puro, un deseo de obtener la diferencia absoluta » (Los cuatro conceptos fundamentales de Psicoanalisis).

¿Qué sería la impureza del deseo del analista?, es algo que podría azorar, para mi esa impureza es el estilo de su deseo como analista, el cual debe emerger en su cura y que lo hace absolutamente particular. Decía que esto puede ser incómodo, tanto en el ejercicio en acto de su oficio, como en la vida, en donde su posición subjetiva debe soportar la soledad de su singularidad.

Podríamos resumir diciendo que en una cura hay un solo sujeto, un solo inconsciente, pero dos estilos. El del analizante, signado por el goce; y el del analista, el cual lleva el sello de su deseo. Este deseo sellado por la impureza de su estilo se manifiesta en la forma en que el analista se dirige al analizante. Pienso que esto es absolutamente central en la práctica y que comienza a operar incluso en la forma en que se le enuncia al analizante la regla fundamental. En este punto Freud nos ha dejado un legado invalorable. La táctica del analista en su acto (en esto soy totalmente freudiano, ya que hay otras posturas en boga) se sustenta en la interpretación, la que va en contra de cualquier exégesis (que apunta al sentido y a la certitud de no correr riesgo), Lacan, en El reverso del Psicoanálisis, desglosa su estructura: el enigma, que es una enunciación sin enunciado, y la cita, que es un enunciado sin enunciación; cualquiera de las dos, al lanzarse en acto sin apoyo del objeto, del cual es al analista, único responsable de lo que dice o calla.

Yo no diría que los analistas gustan de escribir, a menos que después de su análisis deseen dedicarse a esta exigente labor. Creo que es algo más radical, más visceral: les urge escribir, al menos por tres razones que gravitan todas alrededor de la soledad, y la incertidumbre de su acto. (La escuela, sino es una masa en el sentido freudiano, les exige dar cuenta de su trabajo, con fines de garantía, transmisión y enseñanza). Escribir puede presentarse como una urgencia subjetiva para soportar lo Real de la clínica.

Escribir es una forma de tolerar la soledad; efectivamente, se escribe para los otros, es una forma de vínculo social en una Escuela no-masa. En cuanto al estilo literario de los analistas, pienso que eso depende de cada uno a este género artístico. Freud, a mi juicio, fue un escritor nato; pero hay que tener cuidado con esto de « nato« , pues no se nace escritor, se requiere de un enorme esfuerzo y disciplina; además de pasión. Para que alguien aprenda el castellano en su juventud con el fin de leer el Quijote y que reciba el premio Goethe de la lengua alemana, todos estos elementos deben conjugarse, es el caso de Freud. No pienso que haya un estilo de escritura que englobe a los analistas de orientación lacaniana. Si un analista es, además, escritor y logra que sus escritos remitan, hagan, signo de su nombre, es que ha alcanzado un estilo literario; cosa extraordinariamente difícil, a mi juicio. Freud y Lacan lo lograron sin la menor duda.

 


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PSICOANALISIS Y ESCRITURA. PRIMERA PREGUNTA – Dr Guillermo BATISTA

Viviana Rosenwit : ¿Por qué cree que el psicoanálisis presenta una relación tan estrecha a la escritura?

Su primera pregunta, nada más en su forma de enunciarla, plantea problemas a reflexionar de primer orden. Su pregunta, es más bien una interpelación a que dé cuenta de las razones que explicarían « un hecho evidente »; pero en realidad tiene la virtud de mostrarnos que, en psicoanálisis, pocas cosas son « evidentes ». Pueden parecerlo si nos dejamos parasitar por nuestra jerga, arrogándonos al cómodo marasmo de compartir un conjunto de significantes que, sin reflexionar demasiado, nos conforta en una suerte de tibieza grupal. Esto, para mí, es un hecho, que plantea muchos problemas; no siempre hablados abiertamente. En la temática que nos ocupa, lo abordaremos en relación a la distinción entre un « estilo grupal » y un « estilo individual ». Efectivamente, ¿a quién, en nuestro medio, se le ocurriría negar la afirmación de la estrecha relación entre la escritura y el psicoanálisis.? Resulta algo ya asimilado y adquirido en el automatom significante de nuestros intercambios. La simpleza de su pregunta nos obliga a despabilarnos de esta cómoda inercia y, al tratar de responder, nos percatamos de que, no solamente no es evidente, sino que puede ser harto complicado hacerlo. Lacan no pudo haberlo dicho en forma más clara que en su Conferecia en Ginebra sobre el Síntoma: « Escribir para nada es la misma cosa, no se parece en nada al decir, el psicoanálisis es algo muy diferente a los escritos« [1]. Se está refiriendo a sus escritos, a lo que califican como « residuo de mi enseñanza« , vale decir : como un resto.

Creo que ante un interrogante en psicoanálisis, el método que reditúa, es ir a escudriñar primero cómo se planteó el problema en y para Freud, ya que cualquier problemática que plantea esta disciplina siempre encontrará un lugar inaugural en el deseo de su inventor. Desde la primera vez que lo leí, siempre me ha impactado el comentario de Freud en el comienzo del comentario del historial de Elisabeth Von R.:

No siempre he sido exclusivamente psicoterapeuta. Por el contrario, he practicado al principio, como otros neurólogos, el diagnóstico local y las reacciones eléctricas, y a mí mismo me causa singular impresión el comprobar que mis historiales clínicos carecen, por decirlo así, del severo sello científico, y presentan más bien un aspecto literario. Pero me consuelo pensando que este resultado depende por completo de la naturaleza del objeto y no de mis preferencias personales.[2]

Me resulta extraordinario, en primer lugar, como a cualquier analista, estoy en el derecho de tener la impresión que al concatenar « la sorpresa« , « el consuelo » y el « no de mis preferencias« , estamos ante una espléndida « negación »; tanto más cuando pienso en la ardiente pasión de Freud por la literatura, su proverbial prodigalidad epistolar y en su análisis hecho por correspondencia en el que sus interpretaciones encuentran sostén en mitos y construcciones literarias; pero eso queda ahí, en una mera impresión personal. Lo importante es que Freud constata que su invención, que se despliega en un dispositivo de palabras, resulta inefable, no transmisible a otros, sino se recurre al registro de la escritura; y no a cualquier tipo, sino a aquella cuya matriz es la ficción. ¡Cómo no ver al Lacan freudiano! (la verdad tiene estructura de ficción, el matema, forma de escritura, indispensable para la transmisión de la experiencia).

Me gustaría ir formalizando la respuesta a su pregunta por otro sesgo freudiano: el sueño. Así, no me parece abusivo decir que, al principio, para Freud, la clínica está estrechamente ligada a la lectura: descifrar las letras de sueño, constatar que poseen una estructura de frase; leer el sufrimiento escrito, como síntoma, en cuerpo; en fin, se trataría de « saber leer » lo que prefigura su descubrimiento, saber leer el deseo inconsciente articulado en el sueño. Me gustaría hacer algunos comentarios sobre el capítulo VI, del texto La Interpretación de los sueños, titulado en español « La elaboración onírica » y en francés « El trabajo del sueño« . Desde un ángulo técnico y teórico un sueño es ante todo su relato, vale decir es una palabra vectorizada que busca su destino (esquema L), el sujeto se dirige a sí mismo un mensaje que únicamente puede recibir a través del circuito del otro; de este artificio estructural es que se trata en el capítulo referido (artificio operativo en el neurótico, el cual no funciona en el sujeto psicótico, de ahí su conocida pregnancia a la escritura que inscribe o en las paredes del asilo, o en cuadernos que se apilan en el consultorio o que, rara vez, terminan en un Ulyses). Creo que a la palabra « elaboración » o « trabajo » del sueño podría dársele el sentido de escritura, sobre todo si nos las vemos con el registro de la condensación o la metáfora. De esta forma señala Freud haber sido el primero en introducir un « nuevo material psíquico, el contenido latente del sueño » (en relación al contenido manifiesto). Freud nos presenta lo que podríamos llamar su algoritmo — de ahí la connotación de escritura en un sentido matemático, científico — C. Manifiesto\C. Latente.

¿Qué nos dice Freud de su fórmula?, señala que el contenido manifiesto es una trascripción del pensamiento del sueño que deforma su expresión original; de ahí la necesidad de una traducción del contenido manifiesto el cual se presenta como un jeroglífico, deformando los pensamiento y signos del contenido latente y añade: « incurriríamos, desde luego, en error si quisiéramos leer tales signos dándoles el valor de imágenes pictóricas y no de caracteres de una escritura« . Vemos así la ambigüedad del sueño: se trataría de un lenguaje trascrito que amerita una traducción para revelar su sentido; en este capítulo Freud lo dice con todas sus letras: es una escritura jeroglífica que encierra un enigma que solo será revelado si se sabe leer en un sentido gramatical. Conclusión: en el sueño, en tanto relato hablado, encontramos lo oral, el decir, y lo escrito intrínsecamente anudados; esto tiene, a mi juicio, un peso técnico enorme en la práctica ya que es a partir de su dimensión de escritura donde se puede autorizar cualquier interpretación por parte de analista; es la esencia del equívoco como interpretación ya sea gramatical, homofónico o lógico. Aquel que se haya analizado en una lengua que no sea la materna, creo que puede ser más sensible a este hecho. Lacan retomará esta imbricación capital entre el lenguaje oral y la escritura; hasta donde sé es el Seminario « De un discurso que no fuese un semblante« , donde enuncia de la forma más taxativa:

Que el sueño es un jeroglífico no es lo que me hará demostrar ni por un instante que el inconsciente está estructurado como un lenguaje. Solamente es un lenguaje en medio del cual aparece un escrito.[3]

Lacan mantiene su tesis clásica sobre el inconsciente, pero introduce lo escrito en el corazón del mismo. Esta cita de Lacan me evoca a una analizante quien relata con frecuencia una pesadilla repetitiva que posee un guión bastante fijo; no puedo dar los detalles del mismo, pero es una pesadilla que Freud llamaría « típica« , comporta elementos sexuales y traumáticos que, hasta este momento de su análisis, coagulan el goce de este sujeto, en donde también hay francas tendencias transgresoras, que lo anudan al síntoma que la hizo entrar en análisis. Habría que aclarar que en Venezuela el pensamiento mágico religioso y esotérico forma una tupida malla de creencias en la población, aun en personas cultas, lo cual es el caso de este sujeto; ella, invariablemente, después de relatar la pesadilla añade: « lo que más me angustia es que sé que está escrito« . En español y en francés cuando se dice que « algo está escrito » (sobre todo para alguien cuya constelación significante está repleta de este folklore localista) implica la casi absoluta certitud de que ése será su destino. Para mí es un hecho que ciertas formaciones culturales, pueden tornar mucho más viscosa la fijeza del sujeto a su fantasma. Este caso en particular me ha hecho reflexionar en « eso que está escrito en medio del sueño« ; esta analizante me está enseñando de qué se trata, de la escritura indeleble de su goce, en el sentido de la estructra, y enarbola el blasón de su destino. Esto me hace pensar en los sueños transferenciales del Hombre de las Ratas, su vínculo a la muerte y a su destino. En todo caso, la paradoja aquí es total ya que se trata de la escritura de un goce, por lo tanto de Real, que, aunque pasa por el decir, queda fuera del alcance del significante.

[1] J. LACAN, « Le symptôme », Le Bloc-notes de la psychanalyse, 1985, n° 5, pp. 5-23.

[2] S. Freud, « Etudes sur l’hystérie », Œuvres complètes. Psychanalyse, Paris, Puf, 2009, p. 154-206.

[3] J. LACAN, Le Séminaire. Livre XVIII : D’un discours qui ne serait pas du semblant (1971), Paris, Le Seuil, 2006.


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« LA POESIE N’EST PAS UN EXIL MAIS UNE PATRIE » ENTRETIEN AVEC ANOUAR RAHMANI A PROPOS DE « LA VILLE DES OMBRES BLANCHES » – LIONEL LE CORRE


« Quel effet ça vous fait d’être un problème ? » Cette question non formulée dont pourtant W. E. B. Du Bois[1] nous dit qu’elle hante toutes ses relations sociales même les moins racialisées, il convient de la poser également à l’écrivain et journaliste Anouar Rahmani, 28 ans, qui supporte, depuis de nombreuses années, l’acharnement du régime algérien.

 

Qu’on en juge ici : interdiction de quitter le territoire, vexations répétées contre lui et ses proches, interrogatoire plusieurs heures durant au commissariat de Tipaza… Ses livres publiés au Caire sont interdits de diffusion en Algérie pour « blasphème » et « atteinte à la religion ». Ainsi, lors du Salon International du livre d’Alger en 2017, un représentant du ministère de la culture, accompagné de policiers, a fait saisir ses livres[2]. Enfin, son implication dans le Hirak — mouvement populaire qui ébranle depuis plus d’un an le régime algérien — lui vaut d’être poursuivi pour « outrage aux corps constitués ». Sous le coup d’une peine de prison, son procès est actuellement suspendu pour cause d’épidémie à COVID-19.

Que peut bien écrire Anouar Rahmani qu’il paye d’un prix si élevé ? Les causes qu’il soutient impressionnent : défense des droits humains, des droits des minorités religieuses, des droits

 

LGBT+ – il a été le premier en Algérie à réclamer le mariage pour tous ; mais aussi, soutien aux familles de disparus de la décennie noire ou aux berbérophones (Amazigh) dans leur combat identitaire, etc. Alors pourquoi s’obstiner quand tant d’autres, de lassitude en reniements, renoncent à porter les luttes affines ? Réponse d’Anouar Rahmani : « J’écris pour crier ». Et criant, il incarne surtout le désir d’une génération, la nouvelle, qui, de ce côté-là d’une Méditerranée devenue cimetière, n’accepte plus le joug suppliciant et l’indifférence ingrate d’une société qui ne la reconnait pas.

 

            Lionel Le Corre : La Ville des ombres blanches est l’histoire d’un retour sur la terre natale : cinquante ans après l’indépendance, Jean-Pierre rentre à Alger et écrit son propre roman où il évoque la vie d’avant l’exil. Ton roman est dédié au poète Jean Sénac. Dans sa Lettre à un jeune Français d’Algérie[3] en 1956, Sénac s’adresse aussi à un autre Jean-Pierre dont on ne connait que le prénom. Ton projet n’est-il pas de donner vie à ce Jean-Pierre dont la jeunesse et les amours sont retracées au fil du roman ? Peux-tu nous rappeler qui était Jean Sénac, son importance pour l’Algérie et la leçon qu’il lègue ?

 

Anouar Rahmani : Oui, certainement, je voulais donner une vie nouvelle à Jean Sénac / Yahia Louahrani – son nom de résistant — l’un des constructeurs de la révolution pour l’indépendance en Algérie, un poète qui a tant donné à son pays et qui n’a rien reçu. Un homme engagé qui a choisi d’être Algérien et qui a défendu la cause nationale. Mais à la fin, il a été trouvé mort dans la cave où il vivait, tué par un régime qui a tout fait pour l’effacer de la mémoire du peuple algérien parce qu’il était homosexuel.

 

Jean-Pierre, c’est effectivement le Jean-Pierre de Jean Sénac. Je voulais écrire une biographie mais je n’avais pas assez de matériel car en Algérie, on a effacé les traces de Jean Sénac. D’habitude, on efface les traces du crime, ici c’est une victime qui a été effacée… on ne veut pas faire de Jean Sénac une victime. J’ai donné un corps à Jean-Pierre pour qu’il ait une chance de se défendre, de parler de lui et, bien sûr, il y a une proximité entre Jean-Pierre et Jean Sénac… c’est mon cadeau à Jean Sénac.

 

Je voudrais rappeler une phrase que Jean Sénac a prononcée, à la radio algérienne, après l’indépendance : « Ce pauvre corps aussi / Veut sa guerre de libération »[4]. A la suite de ça, il a perdu son travail et sa maison. Il a évoqué la question de la liberté du corps après l’indépendance. C’est un moment très important car cette philosophie évoquée par un Algérien qui appelle à la libération des corps, c’est un fait primitif, basique… mais cette idée de la libération des corps, c’est une nécessité. Cette parole résonne encore aujourd’hui car l’Etat algérien a lutté contre la libéralisation des corps par le contrôle politique. Dans le roman, j’ai utilisé un lexique très courant en arabe, banal, volontairement non littéraire, j’ai nommé les choses par les mots qu’utilisent les Algériens. J’ai été très direct, très sexuel, par exemple lorsque je raconte la naissance de la sœur de Jean-Pierre… J’évoque aussi la liberté avec des mots de tous les jours ou des choses qu’on ne peut pas dire dans la littérature arabe — chier par exemple — où on a affaire à des personnages supérieurs à la nature. Mais pas mes personnages, ce sont des êtres humains à part entière… je n’aime pas masquer, couper l’être humain en morceaux pour qu’il soit beau. Je préfère une littérature naturelle plutôt que parfaite.

 

J’ai essayé d’évoquer la sexualité comme étant un fait lié à l’histoire de l’Algérie. Les Algériens ne sont pas des robots et la sexualité est importante dans la vie des personnes. Or, l’Etat algérien a tout fait pour massacrer la vie sexuelle des Algériens, hétéros comme homos. C’est un contrôle très fort, c’est une guerre contre la nature, l’Etat veut des enfants ou des anges, c’est une relation de type patriarcal. Les seuls qui jouissent ce sont ceux qui dirigent l’Etat.

 

  1. L. C. : J’ai noté également que tu es né le 9 mars 1992 et que tu as publié La Ville des ombres blanches en 2016. Or, Jean-Pierre est né le même jour que toi en 1938. Autrement dit, à peu de choses près, au moment où tu publies ton livre sur un retour d’exil, tu as le même âge que ton personnage lorsqu’il quitte l’Algérie… quel est ton lien avec le héros du livre ?

 

  1. R. : Jean-Pierre c’est un peu moi aussi, avec son amour, ses rêves, ses idées, sa bouche. C’est moi avec mes envies et ma vision de la vie : je déteste le racisme et j’aime la différence, la diversité. Comme Jean-Pierre, je danse seul chaque nuit dans ma chambre et, moi aussi, j’attends l’amour depuis ma fenêtre.

 

Quelle est la valeur de ce signal ? J’ai écrit ce roman avec ma force d’âme. Jean-Pierre est le premier et le seul personnage à avoir le même jour de naissance que moi. Il dit, il fait et il a vécu des choses que je voulais vivre… ce n’est plus Jean-Pierre, mais Anouar. Il est en contradiction avec sa société et sa terre. On a les mêmes envies, les mêmes sentiments, les mêmes idées. Je pense que Jean-Pierre est une fusion entre Anouar et Jean Sénac… lui a été effacé du passé algérien, moi, du présent.

 

  1. L. C. : « La poésie n’est pas un exil mais une patrie ». Cette phrase très forte, très belle caractérise ton écriture à la fois lyrique, poétique et politique… en quoi la poésie est-elle un acte politique, particulièrement dans ce roman où tu multiplies les références à l’indépendance algérienne : le Mémorial du martyr, la rue d’Isly, etc. ?

 

  1. R. : En plus d’être écrivain et journaliste, je suis poète aussi, et il est clair que lorsque j’écris des romans, je dessine un personnage, je rentre dedans et je m’oublie, mais je refuse de le faire pour écrire, pour le plaisir de le faire. Pour moi, l’écriture n’est qu’un engagement, une patrie qu’on construit pour vivre et non pour fuir. On invente la littérature et on survit avec. Moi, j’ai toujours un message à transmettre, j’écris pour crier.

 

L’écriture n’est pas seulement un art sensuel, c’est un art politique. C’est une façon d’intégrer l’écrivain dans le processus historique où il vit. C’est obligatoire et nécessaire pour le développement de la conscience sociale ou personnelle. L’écriture est liée à ce qu’on vit. Ce n’est pas seulement un imaginaire qu’on construit, encore que cet imaginaire soit déjà collé à ce qu’on voit, ce qu’on pense, ce qui nous entoure. On ne peut pas imaginer une couleur qui n’existe pas. On écrit sur ce qu’on a déjà et on le formule. L’écriture permet de modifier ce qui est déjà en quelque chose de plus actuel, en quelque chose qui apporte un peu plus de liberté. Donc, je pense que l’écriture n’est pas un fait indépendant car on vit dans un monde très politique… on ne peut pas le négliger. La poésie n’est pas un refuge où on peut se sauver. C’est un lieu où on grandit, on vit, on se construit. La poésie n’est pas un complément circonstanciel de lieu mais d’existence… On n’écrit pas pour prouver notre existence mais pour exister.

 

Le message politique du roman est triple. J’ai parlé des trois tabous détestés par la société algérienne : la religion, la politique / l’histoire et le sexe. Par mon roman, j’ai essayé de faire revivre les questions oubliées en Algérie… Ces pages où Jean-Pierre raconte son histoire, ses souvenirs, son enfance à Alger avant l’indépendance, ce qui a existé, ce qui n’existe plus aujourd’hui, qui a été effacé des mémoires, les choses qui devraient être plus faciles à vivre. Par exemple, les Pieds-Noirs, ces Algériens d’ascendance européenne, ont été effacés de l’histoire de l’Algérie. On a effacé leur appartenance à l’Algérie par un fait politique. Or, pour moi, celui qui est né en Algérie, qui y a vécu, est Algérien quels que soient les tressauts de l’histoire… le souvenir est le meilleur attachement à une terre. Les Pieds-Noirs et les Harkis qui le veulent, devraient retrouver la nationalité algérienne car ils n’ont jamais cessé d’être Algériens. Être Algérien c’est avoir un sentiment d’appartenance à l’Algérie. Je ne crois pas aux frontières. C’est imaginaire, elles sont créées par l’homme. L’humanité n’a pas à être condamnée par des frontières imaginaires. Dans le roman, Jean-Pierre, né de parents français, reste Algérien car il a combattu pour l’Algérie mais il l’a quittée en juillet 1962. Comme Franz Fanon ou Maurice Audin qui ont aussi combattu pour l’Algérie. Jean-Pierre a beaucoup d’amour pour l’Algérie et il reste Algérien même s’il a dû fuir. On ne peut pas effacer l’appartenance à une terre par un fait juridique ou politique. C’est naturel l’appartenance à une terre, la nature est supérieure aux hommes.

 

Mon roman est aussi une critique du régime algérien qui s’est construit sur des bases racistes, sexistes et religieuses… toute cette méchanceté est présentée comme de la bonté… le régime algérien a su convaincre les Algériens que cette méchanceté était le bon chemin et la bonne voie pour construire une Algérie nouvelle… or, c’est un mensonge établi sur une base falsifiée.

 

  1. L. C. : La nature est très présente dans La Ville des ombres blanches. Dès les premières pages, le héros se rend au jardin d’Essai à Hamma. Cette scène condense le thème du roman car ce jardin où furent acclimatées les plantes les plus utiles au projet colonial, c’est au fond l’histoire de Jean-Pierre, fils de colons qui s’acclimateront à la terre algérienne jusqu’au déracinement de l’exil… pourtant, écris-tu, Jean-Pierre est plus Algérien que les traîtres et les opportunistes qui jouissent de la révolution… Tu proposes donc une théorie complexe de l’identité où ce n’est pas celui qui dit qui est …

 

  1. R. : Ce n’est pas complexe de vivre sa diversité, l’homme est divers par nature ou par choix, et c’est une liberté, une bénédiction de voir le monde par une vision démultipliée. Je le redis : Jean-Pierre est Algérien, comme tous les autres, et ici, j’évoque la question des Pieds-Noirs Algériens qui étaient et resteront toujours, pour moi, des Algériens. Personnellement, je défends l’idée de permettre aux Pieds-Noirs d’avoir le droit à la nationalité algérienne. La peur n’est pas un argument pour les empêcher d’accéder à leur identité algérienne, la majorité de ceux qui ont quitté l’Algérie, l’ont quittée par peur de l’autre et de sa vengeance.

 

Je ne suis pas nationaliste, je suis universaliste. C’est pourquoi je dis qu’un Etat c’est toujours un projet à renouveler, en transformation, comme on dit qu’on ne peut pas se baigner dans la même rivière deux fois… L’Etat désigne à la fois l’organe juridique d’un peuple sur un territoire donné et aussi une manière d’être comme lorsqu’on parle de l’état des choses… c’est une situation qu’on vit, un événement qui passe dans notre vie. Or, l’Etat ne vient pas avant l’être humain et l’Etat doit changer avec la naissance de chaque être humain car, de fait, cela le transforme. Il doit s’adapter en permanence. Donc, c’est toujours un nouvel Etat. C’est pourquoi le régime actuel n’a rien à voir avec l’Algérie du passé. Il y aussi une Algérie juridique qui se transforme pour arriver à contenir ses habitants… d’où le recours aux deux sens du mot Etat…

 

  1. L. C. : L’homosexualité est très présente dans ton roman : il y a les amours tumultueuses de la pianiste, Melle Nancy, le rêve érotique de Jean-Pierre qui décrit une scène de masturbation collective entre camarades… il y a aussi une esthétique très proche des artistes Pierre et Gilles (p. 118). Mais, ce qui retient l’attention c’est l’histoire d’amour entre Jean-Pierre et Khaled, son ami d’enfance qui devient l’un des martyrs de l’indépendance algérienne… Là aussi tu proposes une théorie complexe puisque, premièrement, Jean-Pierre, pour se faire aimer de Khaled imagine devoir se travestir en Sarah ; deuxièmement, en trouvant l’amour avec Khaled, c’est finalement l’amour de son père mort qu’il retrouve…

 

  1. R. : Jean-Pierre est un homosexuel qui aime un certain Khaled, un arabe, par hasard. Albert Camus a choisi de tuer un arabe, par hasard. Kamel Daoud, lui a donné une vie, moi, je l’ai aimé. Je lui ai donné une chance de faire son coming out. Un arabe, un Algérien, un Berbère, un Français, tout le monde a le droit d’aimer et d’être aimé. Jean-Pierre et Khaled sont deux visages d’une seule vérité naturelle : on peut tous aimer, par hasard, par choix, par coïncidence ou par mémoire… l’amour c’est un droit, même dans les moments de guerre.

 

La mentalité algérienne a perdu son aspect émotionnel et artistique… l’amour n’est pas abordé comme tel, directement… comme si on avait peur de l’amour, d’écrire sur l’amour. Les auteurs qui abordent l’Algérie de façon historique l’abordent de façon très violente, comme si l’Algérien était un être coincé dans un seul angle, barré par des barrières de fer, très limité. Dans l’imaginaire algérien, on n’a pas le droit d’aimer et d’être aimé, l’arabe c’est un être qui tue. Or ce sont avant tout des êtres humains… tous les Algériens sont multiples, variés, avec une très grande capacité d’aimer. C’est donc très important de dessiner un personnage qui peut se masturber, baiser, aimer, s’habiller en femme. C’est lui donner une nouvelle liberté à cet être emprisonné. Mon but, c’est de casser le mur des semblants pour voir la réalité. Donc, écrire de cette façon directe, forte, sans limiter le langage, c’est une force de frappe contre le mur des convenances, ces murs, ces frontières, ces prisons qui nous entourent. Je suis Algérien et je dis que je ne suis pas emprisonné, limité, donc j’ai le droit d’aimer, de boire, de lire le journal, de me masturber, de baiser, d’avoir une opinion… d’exister.

 

Dans le roman, Jean-Pierre ne se déguise pas pour recevoir l’amour de Khaled. Il se déguise chaque nuit, dans sa chambre, pour son propre plaisir… et soudain, Khaled le surprend… Jean-Pierre a honte, il ne sait pas quoi faire… il se présente comme Sarah, son déguisement lui sert à se sauver. Il a peur du rejet de Khaled, pourtant Khaled sait bien que Sarah, c’est Jean-Pierre. Mais comme Khaled espère être aimé il accepte ces conditions. D’une certaine façon, lui aussi se déguise devant Jean-Pierre en faisant semblant de croire en Sarah, de lui exprimer son amour alors qu’au fond Khaled est amoureux de Jean-Pierre. Devant Jean-Pierre déguisé en Sarah, Khaled camoufle son amour pour Jean-Pierre. Ce sont deux joueurs qui font semblant… C’est Khaled qui le premier, est amoureux de Jean-Pierre… il n’a pas trouvé l’occasion, il le guette à sa fenêtre, il attend, il espionne Jean-Pierre… Quand il le voit déguisé en femme, il a le courage de franchir toutes les limites : celle de la fenêtre qui les sépare et celle de l’interdit que représente l’amour entre deux hommes auquel il accède en faisant semblant… ensuite Khaled danse avec Sarah/Jean-Pierre, c’est une scène innocente, un amour pur… Jean-Pierre est très heureux alors car il ressent auprès de Khaled une protection paternelle. Il n’a pas connu d’autres affections masculines après la mort de son père… et là avec Khaled, il retrouve cette protection qui lui donne de la force, un modèle… donc pour lui, l’amour pour Khaled est aussi l’amour d’un fils pour son père… comme un sugar daddy… parfois le langage gay utilise le lexique paternel pour dire l’amour entre hommes… il y a un manque d’affection paternelle chez une partie des gays. Jean-Pierre se sert du lien au père pour trouver l’amour comme un sugar daddy… d’ailleurs Khaled est plus beau que lui, plus fort, plus grand. La base primaire de l’amour de Jean-Pierre c’est son père. Dans mon autre roman, Dieu pisse debout, le lien au père passe par son meurtre : le héros tue son père pour pouvoir aimer.

 

J’ai commencé à écrire La Ville des ombres blanches en 2015, j’avais 22 ans… je ne l’ai pas fait comme un professionnel, j’ai juste essayé d’écrire un roman… Les critiques ont dit que c’était un livre vulgaire parce que j’utilise la langue parlée par les Algériens pour parler de sexe ou de dieu.

 

Concernant le couple lesbien formé par Melle Nancy et son amie, je voulais varier les orientations sexuelles dans le roman… montrer toutes les orientations. Mais on trouve aussi dans le roman l’amour fort des parents de Jean-Pierre… Avec le personnage de Melle Nancy, je voulais aussi donner une chance au corps féminin d’apparaitre homosexuel. L’appréciation du corps masculin ne se fait pas aux dépens de la beauté du corps féminin. Les deux sont appréciables. Ce n’est pas nécessairement une décision radicale d’être homosexuel, on peut apprécier la beauté de l’autre sexe car la beauté n’a pas de sexe.

 

  1. L. C. : En quoi la lecture de La Ville des ombres blanches peut-elle éclairer le lecteur français sur le Hirak qui depuis un an secoue l’Algérie ?

 

  1. R. : Que l’Algérie n’est pas seulement une terre de l’histoire passée, mais aussi du présent et de l’avenir. Mon histoire avec le régime algérien peut résumer la manière dont l’Etat algérien se comporte avec son peuple… ça donne une image claire du régime algérien : nous ne sommes que des êtres mineurs, même si on est intellectuel ou âgé et avec de l’expérience… nous restons des enfants pour eux. Ce régime regarde son peuple avec mépris. Il méprise l’intelligence de son peuple. Il limite cette intelligence et l’enferme dans un cadre religieux et militaire. C’est un crime contre l’Etat car, ainsi, ce régime arrête le processus d’avancement des mentalités et le développement du cerveau social. Le régime fait ça par volonté… c’est vexatoire… au fond, le régime veut garder le peuple algérien sous la formule de l’indigénat… des indigènes qui ne pensent qu’à se nourrir au jour le jour ou qui se demandent où ils vont dormir cette nuit… le régime veut que ce soit là les seules questions que se posent les Algériens.

 

Or, les artistes et les écrivains sont une chance de soulever d’autres questions, et de proposer des réponses nouvelles… c’est comme ça que les sociétés avancent… c’est seulement ainsi qu’on pourra faire une Algérie qui n’a jamais existé car elle a été écrasée. Donc, je dis que l’Algérie est toujours colonisée… sous la garde d’un régime qui garantit seulement sa reproduction. Ce qui s’est passé avec moi est porteur de vérité : comme moi, il y a des Algériens porteurs d’un héritage arabo-musulman et qui sont aussi de plain-pied dans la modernité… je défends la diversité des droits humains… donc ça peut aussi contribuer à modifier les stéréotypes des Européens sur le monde arabo-musulman… je demande, par ce roman, le droit à ma société d’exercer son droit à l’intelligence, de penser, d’avoir des écrivains, des philosophes. C’est un droit plus important que le droit à l’indépendance car l’individu est plus important que l’Etat ou toute autre plateforme politique… l’être humain est un fait réel, l’Etat n’est qu’un fait juridique.

 

Alger – Paris, mars 2020.

Ouvrages, nouvelle et articles disponibles en français :

[1] W. E. B. DU BOIS, Les Âmes du peuple noir, Paris, Editions La Découverte, 2007, p. 9.

[2] R. MOUSSAOUI, « Algérie. Anouar Rahmani, une plume contre l’inquisition », L’Humanité, jeudi 20 février 2020, en ligne : https://www.humanite.fr/algerie-anouar-rahmani-une-plume-contre-linquisition-685007 ; voir aussi : A. TAÏA, J.-Ph. CAZIER, « Pour Anouar Rahmani », Diacritik, 15 février 2020, en ligne : https://diacritik.com/2020/02/15/abdellah-taia-pour-anouar-rahmani/

[3] J. SENAC, « Lettre à un jeune Français d’Algérie », Esprit, n°3, mars 1956, p. 335-339.

[4] J. SENAC, Œuvres poétiques, Actes Sud, 2018, 840 p.

 


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L’EMERGENCE D’UN MYTHEME LESBIEN ? – Kevin POEZEVARA

Résumé des épisodes précédents

En 2016, dans le n°1 de cette même revue, j’avais proposé un texte intitulé Superman ou les conditions d’émergence d’un mythe dans la modernité. Il s’agissait du commentaire d’un texte de feu Umberto Eco, à propos de ce qu’il appelait la figure mythopoïétique « carrément géniale »[1] du super héros. En deux mots : le motif de l’identité secrète du héros masqué est une trouvaille qui permet de faire tenir ensemble les registres inconciliables que sont le romanesque et le mythologique, trouvaille qui n’a donc rien à envier aux productions de la pensée sauvage[2] qui brillent toujours d’être à la fois amalgamiques (point de condensation et d’équilibre des signifiants inconciliables) et agalmatiques (ombilic rayonnant qui s’offre comme source autant que portée du désir). On pensera notamment aux fameux masques à volets kwakiutl décrit par Lévi-Strauss, à leur « don dithyrambique de synthèse » qui permet de réunir « dans leurs figurations la sérénité contemplative des statues de Chartres ou des tombes égyptiennes, et les artifices du Carnaval. »[3] Dans son célèbre La Geste d’Asdiwal, véritable manifeste de ses Mythologiques à venir, Lévi-Strauss mettait en série les types de médiateurs mythiques en faisant des dioscures (du « dioscurisme ») le résultat d’un affaiblissement, relégué « en queue de liste » des valeurs régulatrices : en effet, « après le messie (qui unit les contraires) » en une seule et même figure, après « le décepteur ou trickster (qui les juxtapose dans sa personne) », « la paire dioscurique » ne fait qu’associer les signifiants contraires, tout en les laissant individuellement distincts :

Le passage d’un médiateur unique à une paire dioscurique témoigne donc d’un affaiblissement de la fonctions médiatrice, d’autant plus net que, peu après leur apparition sur la scène mythique, les jumeaux [pour le coup les petits-fils du fameux Asdiwal] périssent en territoire inexploré, sans avoir joué aucun rôle.[4]

On notera que c’est l’année même de la publication de La Geste d’Asdiwal dans la revue Les Temps modernes — en 1962 — qu’Eco a prononcé son exposé sur « le mythe de Superman » où il pointait la production dans la modernité d’un nouveau type de médiateur mythique à ajouter à la série dégringolante de Lévi-Strauss, soit une possible conjonction des mythèmes dioscurique et messianique. Le fort de la trouvaille mythopoïétique de l’identité secrète c’est de permettre l’émergence dans la modernité d’une figure mythique traditionnelle (ce que j’ai proposé d’appeler une figure Omphallique[5], érection centrale d’un pivot, signe et support des rencontres arbitraires) sans avoir à se priver du plaisir romanesque (pour certains un brin coupable) qu’offrent toujours les histoires de jumeaux terribles. Je vous renvoie à ce propos, à un autre article d’Eco (« L’agnition : note pour une typologie de la reconnaissance »), où il soutient que la révélation de l’identité masquée du personnage « constitue un artifice mercantile justifié par l’idéologie consolatoire du roman populaire »[6]. Dans le même ordre d’idée nous avons donc Superman alias Clark Kent, jumeau de lui-même, à la fois statue indéboulonnable du mythe et personnage ouvert aux aléas rocambolesques de tombée des masques et de chute du voile.

On retrouve la même structure chez Wonder Woman (à propos de laquelle il m’a aussi été donné d’écrire, cette fois pour le n°0 de cette même revue) à un détail près : dans le cas de la célèbre amazone, la filiation d’avec le mythe traditionnel semble moins encrypté. Pour le dire autrement, il semblerait qu’avec Wonder Woman le récit se fasse pour partie l’interprète de sa propre structure. Fallait-il qu’une femme soit prise dans le mythe super héroïque pour que surgisse dans le fil de l’histoire la mise en scène de sa filiation omphallique ? Ou bien peut-on y voir un effet de clairvoyance de son auteur, William Moulton Marston, dont on sait qu’il était titulaire d’un doctorat en psychologie obtenu à Harvard ?

Wonder Woman, fille unique d’Hippolyte, reine des Amazones, s’appelle à l’origine Diane, en hommage à sa marraine la déesse de la lune et de la chasse. Née sur Paradise Island, une île qui porte bien son nom de n’avoir jamais été foulée par aucun homme, elle a été conçue par un procédé de modelage auquel Aphrodite a ensuite insufflé la vie. Du propre aveu de l’auteur, Wonder Woman devait être une « propagande psychologique pour le nouveau type de femmes qui devrait un jour dominer le monde ». Icône féministe donc, qu’il disait directement inspiré de sa femme, la psychologue Elizabeth Holloway Marston, si ce n’est de ses femmes, puisque les Marstons pratiquaient le polyamour, partageant leur vie avec Olive Byrne, dont on notera au passage qu’elle était la fille d’Ethel Byrne et la nièce de Margaret Sanger, les fondatrices du planning familial américain.

Émergeant donc d’un contexte résolument féministe (même s’il est important de garder en tête qu’elle reste l’œuvre d’un homme), Wonder Woman était loin de faire, à ses débuts, l’unanimité du public : pour s’en convaincre il suffit de relire la description qu’en donnait le tristement célèbre Docteur Wertham, au début des années 50, dans son ouvrage Seduction of the innocent : aux yeux du brave psychiatre, Wonder Woman, « la super femme », avec sa « super poitrine » qui case après case « s’avance » et « s’impose », est « toujours une figure horrifique »[7]. Exemple paradigmatique de la séduction morbide de son médium, la super héroïne est « une figure terrifiante pour les garçons et un idéal indésirable pour les filles ». Il poursuit, ce qui nous permet d’aborder enfin, après cette longue introduction, le véritable sujet de cet exposé : cette « cruelle femme phallique »[8] est en dernière analyse pour Wertham une figure fasciste, futuriste et castratrice qui, lorsqu’elle rit des hommes faibles entourée de sa suite de filles / sœurs lesbiennes, soutient une propagande strictement anti-masculine. Une double « accusation » de lesbianisme et de misandrie qui a résonné dès les premières publications de Wonder Woman et à laquelle Marston a vite répondu (selon certaines sources à l’initiative d’Elisabeth) par un pied de nez, en accordant à son héroïne une expression favorite : lorsqu’elle est dans une mauvaise passe il lui arrive en effet de jurer en en appelant à la « Great Héra », mais le plus souvent Wonder Woman s’exclame « Suffering Sappho ! », « Sappho la souffrante ! »

Les rebelles du fétiche

Il y a un point sur lequel j’ai plus de mal à me désaccorder de l’analyse de Wertham : lorsqu’il fait de Wonder Woman une figure fétichiste.

Si je n’aborde pas ce terme comme le faisait le psychiatre (qui le met en rapport avec une éventuelle promotion par Marston de la pratique du bondage), je pense en effet qu’il touchait là — sans le vouloir c’est sûr — à quelque chose de la structure qui sous-tend l’histoire même de Wonder Woman, si ce n’est de tout récit héroïque. Comme je viens de le dire, la princesse Diane est avant tout une enfant fétiche, figure façonnée d’argile qui éprouvera les plus grandes difficultés à échapper à l’emprise de son île maternelle pour s’envoler vers le pays des hommes. L’angoisse exprimée par Wertham face à cette figure féminine, m’avait permis, dans l’article cité ci-dessus, de le diagnostiquer du côté de ceux que je propose d’appeler les « rebelles du fétiche », et dont un des prototype pourrait être Paul de Tarse, qui pointait déjà du doigt une vierge de pierre bien connue (notamment chez Freud) sous le nom de Grande Diane des Ephésiens, là aussi pour en dénoncer la double séduction : à la fois spirituelle et mercantile. Si, comme j’ai tenté de le démontrer tout au long de mon travail de thèse, notre ambivalence à l’égard de la figure héroïque nous vient du fait qu’elle ne parvient jamais à incarner, sans que cela se sente ou que cela se sache, l’arbitraire du Signe, on comprendra que ses versions féminines puissent donner quelques sueurs froides à ceux qui, parmi les spectateurs s’avèrent un peu trop sensibles dans leur approche de la question de la castration. Autrement dit, une héroïne dira toujours un peu trop le rapport que pourtant toute figure héroïque entretient, en tant que tentative de médiation mythico-imaginaire, avec la castration prévue au contrat du fait symbolique.

Ce rapport, un joli petit mythe grec[9] l’illustre à la perfection : Pan, depuis sa montagne, voit passer Héraclès et Omphale et tombe fou amoureux de cette dernière. Il descend pendant que les deux amants s’arrêtent pour la nuit dans une grotte où, selon le jeux coquin qu’on leur connaît, ils s’amusent à échanger leur vêtements. Pan entre finalement dans la grotte plongée dans l’obscurité et avance à tâtons à la recherche de la belle. Il touche d’abord la peau du lion de Némée et fait demi-tour devant celui qu’il pense, en toute logique, être Héraclès. Il effleure finalement un bout de soie fine, et ravi d’avoir atteint son but, soulève prestement la jupe… Quel n’est pas sa surprise lorsqu’au lieu d’un joli manque phallique il tombe nez à nez avec le membre (que l’on imagine conséquent) du héros. Depuis ce jour, humilié, Pan a en horreur tous les vêtements et demande donc qu’on se présente à ses autels dans le plus simple appareil.

Pourquoi citer ici ce mythe ? Car c’est un mythe anti-fétichiste[10]. Qui illustre bien l’attitude de ceux qui s’en prennent à l’étoffe dont on couvre les héros à défaut de pouvoir s’en prendre à ce que l’on trouve en dessous. Les rebelles du fétiche vont toujours reprocher à la trouvaille imaginaire le manque qu’elle était simplement censé devoir masquer. Au nom du malaise « au pays de la culture » ils vont incriminer « les coquillages multicolores »[11], ceux-là même qui étaient censé le leur faire supporter. Le malaise.

« C’est quand même chaud ! »

Je pense maintenant à un jeune lycéen rencontré au CMP qui associait à propos de l’homosexualité d’une de ses amies. Pour lui, ce serait « super difficile d’être gay ». D’ailleurs quand il est arrivé au lycée professionnel, et qu’il a vu qu’il n’y avait que des mecs, il m’explique avoir eu « peur de devoir devenir homosexuel » … en effet, à ses yeux, être homo « c’est quand même chaud ! ». C’est comme au cinéma, où il a remarqué qu’il y avait de plus en plus d’homosexuels dans les films quoique jamais de « héros gay ». « Un héros gay qui serait un vrai héros ! Genre super balèze et tout, mais gay ». Et là il se fait songeur : « Ah ouais mais c’est chaud… Il faudrait qu’on voie le héros embrasser des mecs ! Oh non ! C’est trop chaud ! » Il frissonne et secoue la tête pour faire disparaître l’image. « C’est pas pareil avec les filles… dit-il. Enfin si, si c’est deux moches qui s’embrassent, nooooon, là aussi c’est trop chaud !! Alors que si c’est Beyoncé et Rihanna, là ! Là y’a pas de problème ! ». Il jubile et de mon côté, intérieurement je cite Freud : a glance, un regard. L’article sur Le fétichisme : « La ‘’brillance sur le nez’’ était à vrai dire un ‘’regard jeté sur le nez’’ […] fétiche auquel le patient conférait du reste à son gré cette brillance lumineuse particulière que d’autres ne pouvaient percevoir »[12]. Il y avait quelque chose d’une lumière comparable dans l’évocation par ce jeune de la rencontre fantasmatique des deux divas. Des deux stars. Quelque chose d’également éblouissant, suffisamment pour l’aveugler provisoirement et lui permettre d’échapper à la confrontation d’une autre scène, plus chaude par bien des côtés.

C’est la collusion entre cet instantané clinique et le souvenir que m’a laissé le film La vie d’Adèle qui m’aura donné l’image séminale (pour reprendre un terme d’Eco) à l’origine de cet écrit. Moins le film en lui-même au final, que la polémique qui auréola sa sortie et son succès cannois. Pour moi-même j’ai d’ailleurs commencé par appeler cet article « le charivari des vagins en plastique » : souvenez-vous de la bataille par presse interposée entretenue pendant de longues semaines entre le réalisateur et ses actrices et de cette demande de précision insistante de la part des journalistes qui ont finalement levé le voile sur le truc derrière les désormais fameux ébats cinématographiques d’Adèle Exarchopoulos et de Léa Seydoux. A la question pressante concernant le caractère simulé ou non des scènes de sexe, on a fini par apprendre que les actrices portaient des sortes d’étuis vaginaux, moulures siliconées plus vraies que nature. Ou pour citer Télé loisir : des « prothèses de vagin, faites sur mesure, recouvertes de faux poils pubiens et peintes couleur chair. Tout ça grâce au savoir-faire du maquilleur Pierre-Olivier Persin ». L’autre polémique a concerné les choix opérés par Kechiche, dans son adaptation de la bande dessinée originelle, Le Bleu est une couleur chaude. Choix parfaitement respectés par Julie Maroh, l’auteur de la BD qui dit lui avoir accordé une liberté totale… A aucun moment elle n’a critiqué le parti pris ou la vision propre au réalisateur, si ce n’est sur un détail qui est justement la forme prise par les scènes d’amour. Je cite un passage de son blog :

En tant que lesbienne…

Il me semble clair que c’est ce qu’il manquait sur le plateau : des lesbiennes.

Je ne connais pas les sources d’information du réalisateur et des actrices (qui jusqu’à preuve du contraire sont tous hétéros), et je n’ai pas été consultée en amont. Peut-être y a-t-il eu quelqu’un pour leur mimer grossièrement avec les mains les positions possibles, et/ou pour leur visionner un porn dit lesbien (malheureusement il est rarement à l’attention des lesbiennes). Parce que — excepté quelques passages — c’est ce que ça m’évoque : un étalage brutal et chirurgical, démonstratif et froid de sexe dit lesbien, qui tourne au porn, et qui m’a mise très mal à l’aise. Surtout quand, au milieu d’une salle de cinéma, tout le monde pouffe de rire. Les hétéronormé-e-s parce qu’ils/elles ne comprennent pas et trouvent la scène ridicule. Les homos et autres transidentités parce que ça n’est pas crédible et qu’ils/elles trouvent tout autant la scène ridicule. Et parmi les seuls qu’on n’entend pas rire il y a les éventuels mecs qui sont trop occupés à se rincer l’œil devant l’incarnation de l’un de leurs fantasmes.[13]

Elle conclut avec fournissant un lien vers une vidéo mettant en scène des lesbiennes (des vraies) dont on a filmé les réactions alors qu’on leur projetait des scènes de porno dit « lesbien ». Et les véritables lesbiennes de s’offusquer du caractère invraisemblable des pratiques mises en scène, signe d’une adresse résolument masculine. « C’est pas du tout comme ça qu’on fait ! » s’offusque l’une d’elle. Pour peu on se retrouverait presque face à une nouvelle version du mythe de Tirésias, avec un report de la question du plaisir féminin sur la seule population lesbienne, devenu l’ultime bastion du mystère de la jouissance au féminin.

Mademoiselle(s)

C’est un autre film qui me permettra de faire le pas suivant, celui-là même qui me fit délaisser ma première idée de titre pour celui de l’émergence mise en question d’un éventuel mythème lesbien.

Comme La vie d’Adèle, Mademoiselle de Park Chan-Wook est un film adapté (par un homme donc) d’une œuvre littéraire rédigée par une auteure homosexuelle. Présenté lui aussi à Cannes le film est reparti sans prix et surtout sans avoir fait autant de vagues. Si les scènes de sexe n’ont rien à envier à celles mises en scène par Kechiche, la presse a unanimement saluée la tension érotique qui s’en dégageait, sans jamais utiliser le terme qui toujours revenait pour décrire celles de La Vie d’Adèle : la crudité. Au contraire tous les critiques ont salué l’esthétique particulièrement léchée (sans mauvais jeu de mot) du film… Pour ma part, il aura en tout cas fallu ce recours à plus de sublimation et de contraste pour me permettre de finalement saisir ce qui jusque-là m’échappait de la structure du récit de Kechiche. Par bien des côtés Mademoiselle semble constituer une ré-imaginarisation à gros traits du complexe avec lequel composait plus crûment La Vie d’Adèle. C’est donc en toute logique lévi-straussienne que je me suis appliqué à interpréter l’un par le biais de l’autre.

Pour commencer (et pour légitimer en partie ma longue introduction rétroactive), on notera que la structure tricéphale de Mademoiselle n’est pas sans rappeler le faux triangle amoureux mis à jour par Eco dans sa lecture du mythe de Superman, à un détail près c’est qu’elle en renverse l’ensemble des termes : lorsque le vaudeville obsessionnel qu’engendre la trouvaille du mythème de l’alter ego super-héroïque empêche qu’advienne tout rapport sexuel (pour rappel, Lois Lane n’a d’yeux que pour Superman, qui lui ne peut s’offrir à elle que dissimulé derrière les binocles peu séduisantes de Clark Kent), au contraire le complexe jeu de dupe de Mademoiselle, conditionne non plus l’échec mais bel et bien l’avènement d’une rencontre sexuelle, cette fois entre deux femmes. Si chez Superman vous avez une femme et un homme qui ne peuvent se rencontrer du fait de la secrète division de ce dernier entre deux alter ego que tout oppose, dans Mademoiselle, vous avez la rencontre amoureuse secrète de deux femmes que tout oppose mais qui dans le mouvement de cette union (qui porte bien son nom) finissent par se ressembler comme deux gouttes d’eau, rencontre que précipite et légitime la référence à un troisième terme masculin, strictement exclu de la scène.

En ayant recours à deux héroïnes si radicalement opposées — une riche japonaise, mélancolique et lascive, face à sa servante, trépidante fille des rues coréenne — et en ne laissant (par ses choix de mise en scène) aucun doute sur la pente spécularisante de leur relation (je pense à la scène préliminaire à la première rencontre sexuelle, où les rôles s’inversent et où c’est la maîtresse qui habille et coiffe — à son image — la servante, jusqu’à ce point où elles finissent par se tenir l’une en face de l’autre comme face à un miroir, avant de se déshabiller mutuellement dans une chorégraphie à la symétrie parfaite), en ayant recours à ces motifs résolument marqués, Park Chon-Wook grossit les traits et rend donc (au moins pour moi) plus visible une articulation déjà présente dans La Vie d’Adèle. Ceux qui ont vu le film de Kechiche se souviennent peut-être de ces deux scènes disposées en miroir, inédites par rapport à la BD, ces deux repas familiaux strictement antagonistes où d’un côté on sert un lourd plat de spaghettis bolognaise et de l’autre des huîtres arrosées de bon vin blanc, où d’un côté on peine à comprendre l’envie de stabilité salariale d’Adèle alors que de l’autre on disserte sur le risque que représente le choix d’une vie d’artiste. En dernière analyse, la question posée par La Vie d’Adèle ce n’est donc pas « Comment est-ce que deux femmes peuvent être ensemble ? » mais « Comment est-ce que peuvent l’être deux sujets issus de milieux sociaux si différents ? »[14] Et pour ce qui est du tiers masculin qui, malgré son éviction, légitime la rencontre de ces deux extrêmes qui finissent par s’unir dans la jouissance, il n’est pas à trouver cette fois dans le film lui-même (qui d’ailleurs se termine, contrairement à celui du coréen, sur l’échec de l’histoire d’amour), mais bien plutôt dans le discours quasi légendaire qui a été tenu sur le film lui-même et plus particulièrement sur son making of. Une façon, à mon sens d’expliquer la dérogation demandée et obtenue par le jury de Cannes pour que ce ne soit pas seulement Kechiche, mais le trio composé du metteur en scène et de ses deux actrices qui soit récompensé par la Palme.

Conclusion

Pour résumer, je propose donc de repérer l’émergence d’un mythème qui, en récupérant la scène lesbienne, nous promet une joyeuse réunion des contraires, une heureuse retrouvaille entre les pôles antagonistes de la paire dioscurique. Au moins le temps de la jouissance partagée (assurément dans ce mythe, il y a un rapport sexuel), la servante coréenne et sa maîtresse japonaise, la banlieusarde et l’artiste aux cheveux bleus, se trouvent réunies en une seule et même figure esthétique, qui sera monstrueuse pour certains et messianique pour d’autres… Et entre ceux que cette rencontre excite, ceux qu’elle angoisse et ceux qui ironisent à son propos, commence dans la salle le grand charivari, le grand vacarme, comparable à l’ensemble de ces « rites tintamarresques »[15] qu’immanquablement les hommes ont mis en place chaque fois qu’il fallait marquer le coup, face à une union maritale inadéquate ou (ce qui du point de vue du mythe revient au même) une conjonction astronomique insolite. Autrement dit, Le Soleil a rendez-vous avec la Lune et à chaque éclipse c’est une nouvelle Manif pour tous !

Plus sérieusement, il faut s’interroger sur les raisons qui causent une telle émotion, et sur ce point je vais être à nouveau très lévi-straussien : si, comme il le posait (pas tout à fait en ces termes) dans Histoire de Lynx, la santé mythologique dépend du maintien d’un certain « déséquilibre dynamique »[16] entre des pôles signifiants opposés (le soleil et la lune, le masculin et le féminin, l’exogamie et l’endogamie, le Coyote et le Lynx, bien distincts chacun de leur côté), la conjonction de ces antagonistes sera toujours l’occasion d’une orgie ou d’une débâcle (ce qui pour certain revient au même). Pourquoi ? En dernière analyse, la rencontre des opposés qu’est-ce que ça signifie ? Ça signifie la chute, l’évanouissement, le déclin, de ce qui les maintenait à bonne distance. Ce qui brille par son absence (a glance !) au moment — angoissant pour certains, jubilatoire pour d’autres — de la rencontre c’est l’existence d’un objet censé assurer une fonction résolument inverse à celle du point de capiton, je veux parler d‘un médiateur, d’un étai dont la rigidité devait nous assurer contre le risque de collapsus. C’est ainsi que l’on pourra interpréter la texture particulière donnée dans notre mythe lesbien à l’éviction du masculin qui, encore une fois, brillant par son absence, est mis en place de légitimer la rencontre. Légitimer, parce que c’est toujours à ça que servent en définitive les mythes.

En termes plus lacaniens on pourrait dire que la contrepartie à cet instant de jouissance qui se précipite au lieu de la rencontre (avant ça impensable), le prix à payer c’est l’aphanisis du tuteur phallique, celui-là même qui jusque-là maintenait tout ce beau monde à distance respectable et donc maintenait vif la portée du désir. Et c’est la marque de cet évanouissement qui provoquera les réactions différentielles : d’un côté vous avez donc les « rebelles du fétiche », avec parmi eux ceux qui, face à deux femmes enlacées, y verront toujours le signe d’une dégradation de l’étalon phallique (souvenez-vous Wertham et son horreur des héroïnes phalliques castratrices), de l’autre côté ceux qui y trouvent de quoi soutenir leur désir (Marston et son goût du ménage à trois).

Pour conclure on pourra alors se reporter à la scène finale de Mademoiselle, qui articule élégamment une bonne part des points développés au cours cet exposé : les deux amantes sont en fuite, et malgré les douaniers ayant pour ordre d’arrêter toutes les femmes voyageant ensemble, elles parviennent à passer la frontière, au prix du travestissement de l’une d’elles. Enfin seules, elles se débarrassent des oripeaux masculins et l’ancienne maîtresse dégaine un chapelet de boules de Geisha qui n’est pas sans rappeler l’instrument punitif avec lequel son terrible beau-père lui tapait sur les doigts quand elle était petite. L’instrument de dressage du corps devient, en changeant de main, source de volupté. Les corps s’emmêlent, la caméra se détourne. La lune, seule, surplombe la scène, l’image se fige et se transforme en estampe… L’image se transforme en estampe et je vous propose d’y voir plus qu’un simple détail esthétique, plutôt un ultime pied de nez du réalisateur qui, à n’en point douter, sait ce qu’il fait quand il finit donc par nous assimiler à celui-là même que les deux femmes tentaient (vainement donc) de fuir, à ce beau-père fétichiste que l’on avait vu tout au long du film en admiration béate devant sa riche collection d’aquarelles pornographiques.

[1] U. ECO, « Le mythe de Superman », De Superman au Surhomme, Paris, Le livre de poche, 2005, p. 114.

[2] Cl. LEVI-STRAUSS, La pensée sauvage, Paris, Plon, 2014.

[3] Cl. LEVI-STRAUSS, La voie des masques, Paris, Plon, 2009, p. 11.

[4] Cl. LEVI-STRAUSS, « La geste d’Asdiwal », Anthropologie Structurale II, Paris, Pocket, 2009, p. 200.

[5] K. POEZEVARA, Étude sur l’héroïsme – incidences culturelles et cliniques de la lutte contre l’inertie, Thèse de doctorat en psychanalyse et psychopathologie, Université Paris 7, UFR d’études psychanalytiques, CRPMS, 2015.

[6] U. ECO, « L’agnition : note pour une typologie de la reconnaissance », De Superman au Surhomme, Paris, Le livre de poche, 2005.

[7]  F. WERTHAM, Seduction of the innocent, New-york, Mainroadbooks inc., 2004, p. 34.

[8] Ibid, p.101.

[9] OVIDE, Fastes chant II.

[10] Voir l’analyse plus détaillée que j’en fais ici : K. POEZEVARA, « L’omphalos delphique. Apport psychanalytique à une hypothèse archéologique », Cliniques méditerranéennes, vol. 101, n°1, 2020, p. 259-271.

[11] F. NIETZSCHE, Ainsi parlait Zarathoustra, Paris, Le livre de poche, 2010, p. 119.

[12]  S. FREUD, « Fétichisme », Œuvres complètes. Psychanalyse, Paris, Puf, tome XVIII (1926-1930), p. 125.

[13] J. MAROH, “Le bleu d’Adèle”, 27 mai 2013 [Article de blog]. Consulté sur http://www.juliemaroh.com/2013/05/27/le-bleu-dadele/

[14] Ce mythème « émergeant » n’est en cela pas si neuf que ça, puisque comme le rappelait Lacan, « qui ne sait, depuis que Platon l’a dit, que l’Amour est fils de Poros et de Penia ? ». J. LACAN, Le Séminaire. Livre VIII : Le transfert, (1960-1961), Paris, Le Seuil, 2001, p. 149.

[15]  Cl. LEVI-STRAUSS, Le cru et le cuit, Mythologiques tome 1, Paris, Plon, 2009, p. 306.

[16] Cl. LEVI-STRAUSS, Histoire de Lynx, Paris, Plon, 2009, p. 13.


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ELINOR LA POUPEE, UNE EXPERIENCE ARTISTIQUE : ADOLESCENCE ET POLITIQUE – Renato SARIEDDINE ARAUJO, Juliana SILVEIRA MAFRA

Le court-métrage Elinor (2016) part d’une discussion entre adolescents qui se disputent pour déterminer le sexe d’une poupée en tissu, confectionnée par l’artiste Juliana Mafra et fraîchement tombée entre les mains des étudiants du lycée Estadual Central de Belo Horizonte. Une adolescente trans dira à propos de cette poupée « qu’il est évident qu’Elinor est une fille trans car — remarque-t-elle — on ne se définit pas par le stéréotype ». Provocateur, un autre jeune lui répondra que non, puisque, selon lui, dans ce cas elle serait tout de même « un homme trans, une fille qui est devenue un homme »

Un troisième demandera alors à ses camarades : « Quelle est la vrai histoire de cette poupée ? » Par la suite, il ajoutera encore qu’elle « habite en banlieue et qu’elle est une psychologue qui envisage de combattre ce système, car la lutte des classes… » « C’est la base de toutes les autres luttes », dira une autre fille en l’interrompant pour compléter elle-même la phrase.

Elinor est le nom d’une expérience de l’artiste Juliana Mafra, invitée par un groupe d’artistes polonais qui séjournaient à Belo Horizonte pour organiser une exposition avec des artistes locaux. Ils voulaient mener une discussion portant sur l’immigration en Pologne observant la famille de descendants polonais qui tenait le magasin de sucreries Lalka, ou poupée en polonais. Les actuels propriétaires du magasin, descendants des polonais immigrés ne parlaient pas polonais, et n’avaient plus aucun lien avec la Pologne, ils étaient tout simplement des brésiliens lambda.

L’œuvre d’art demandée aux artistes devait établir un rapport quelconque avec ce magasin au nom polonais fondé dans les années 1920. Juliana a repris la poupée d’une taille d’environ 1,50 m, qu’elle a cousu en tissu, à la demande d’une amie pour le tournage de son film Hibiscos debaixo da terra (2016) et elle m’a invité à produire des images (photo et film), tâche que j’ai partagée avec les étudiants

 

 

 

 

 

Nous étions en novembre 2016. Dans tout le pays, des dizaines de milliers de lycéens occupèrent près de mille écoles parfois pendant plus de six mois pour manifester contre le coup d’État qui, fin 2015, renversa la présidente Dilma Rousseff. Elinor fut apporté au lycée Estadual Central, où, jadis, la présidente, alors adolescente, avait fait ses études avant de s’engager dans la lutte contre la dictature militaire dans les années 1960. La poupée resta deux semaines campée parmi les jeunes et nous leur avons rendu quelques visites durant cette période où ils ont accompli des faits remarquables.

 

Jusqu’alors, nombreux parmi eux n’avaient jamais eu à se débrouiller pour leur propre compte. Au lycée Estadual Central, ils ont développé une campagne et un réseau de dons alimentaires, organisé les lieux de stockage et la distribution pour assurer l’alimentation des occupants de nombreuses autres écoles publiques de Belo Horizonte et de sa banlieue.

 

Ces étudiants d’environ 14 à 18 ans avaient les clés et contrôlaient l’accès à l’école. Évidement il a fallu créer des règles internes pour gérer le fonctionnement des lieux, la division des tâches (cuisine, ménage, garde de nuit). Il a fallu aussi gérer les rapports à l’intérieur du groupe et même la sexualité — qui était un sujet constant de discussion —, dans le but de garder une bonne entente entre eux. Ils ont développé, avec l’appui de nombreuses personnes extérieures, des activités pour s’occuper pendant la journée, et ils ont même pu organiser des cours dans les disciplines traditionnelles.

 

Avec les étudiants d’autres écoles, ils ont organisé des manifestations où ils étaient au nombre de quelques milliers. Par le biais d’une coordination nationale, ils ont collaboré ensemble pour l’organisation des voyages en bus de plusieurs dizaines de milliers d’étudiants de tout le pays vers Brasilia pour manifester contre l’affaiblissement de l’éducation publique. Ils ont dû faire face à l’agressivité impitoyable et inconstitutionnelle des forces de l’ordre et à plusieurs formes de pression et persécutions à divers niveaux.

 

Ils ont réalisé plusieurs assemblées, parmi lesquelles Elinor a pris part. À la suite de discussions sur l’éducation, ils ont fait remonter leurs revendications aux directeurs des écoles et aux représentants de l’État, lesquels étaient opposés de façon féroce et souvent illégale au mouvement. Beaucoup de parents, visiblement fiers, appuyèrent le mouvement, tandis que d’autres s’y opposèrent

 

Parfois, ils ont dû résister aux groupes de jeunes d’extrême droite qui venaient les menacer, ou encore se positionner face aux dirigeants de l’école qui ne collaboraient pas avec le mouvement et les exhortaient à cesser. Néanmoins, ils ont aussi reçu l’appui de très nombreux enseignants, même si d’autres visiblement s’y opposèrent À ceux qui leur disaient qu’ils ne pouvaient pas occuper ainsi l’école, ils répondaient simplement que d’abord l’école leur appartenait à eux. Pour beaucoup, ce fut la première initiation au débat public concernant leur propre sort et de celui de l’ensemble de la société. Ils s’inspiraient d’autres mouvements d’étudiants à travers le monde, comme celui du Chili surnommé « La révolte des pingouins ».

 

Dès le premier jour de l’occupation, Elinor reçut des étudiants de nouveaux vêtements, en commençant par le t-shirt de l’Union Brésilienne des Étudiants, des baskets, une cape et voilà : elle était une des leurs. Le film Elinor (2016), qui a même été sélectionné pour un festival de cinéma important au Brésil, essaye de donner à voir le cercle de solidarité et d’affection dans lequel la poupée a circulé. On voit dans le film des étudiants disant pouvoir confier leur secrets à Elinor, tandis que d’autres les révélaient dans les réunions appelées « cercles de shade », où tout pouvait se dire sur les collègues, pratique qui nous a semblée plutôt négative.

 

Un étudiant a dit qu’il a toujours préféré jouer aux poupées plutôt qu’aux voitures, parce qu’il s’identifiait aux poupées, alors qu’avec la voiture on ne pouvait pas faire grande chose. Laura a dit être physiquement identique à la poupée au point qu’on surnomma Elinor, Laura II, ce qui — selon elle — lui donnait des droits supplémentaires sur la poupée.

 

Pour le vernissage, nous avons invité quelques étudiants à témoigner de leur expérience avec Elinor ainsi que de leur démarche politique. Ils ont dit que la poupée et le film les encourageaient, en témoignant de leur lutte. Elinor — ont-ils conclu — pourra transmettre aux prochaines générations d’étudiants qu’ils ont « lutté pour eux et qu’ils doivent désormais lutter à leur tour pour leurs droits ».

 


 

 


 


 

 


 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 


 


 



 



 


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GIDE, L’HOMO DE LACAN : QUELQUES REMARQUES A PROPOS DE JEUNESSE DE GIDE OU LA LETTRE ET LE DESIR – Lionel LE CORRE

 

« Etendre l’humanisme à la mesure de l’humanité. »

Claude Lévi-Strauss, Leçon inaugurale au Collège de France, 5 janvier 1960.

 

 

Jeunesse de Gide ou la lettre et le désir[1] est présenté, parfois, comme un texte à part dans le corpus lacanien car il s’agit principalement d’un compte-rendu de deux livres par qui n’en a jamais écrit : l’un de Jean Delay, La Jeunesse d’André Gide[2], l’autre, de Jean Schlumberger, Madeleine et André Gide[3], parus respectivement en 1957 et 1958. Deux versions de l’article de Lacan existent : l’une[4] rédigée durant les vacances de février pour une parution en avril 1958 dans la revue Critique, l’autre, insérée en 1966 dans les Ecrits et qui présente des modifications principalement d’ordre stylistique. Plusieurs psychanalystes ont depuis étudié le texte de Lacan comme Jacques-Alain Miller[5] en 1993, Catherine Millot[6] en 1997, Philippe Hellebois[7] en 2011, Luis Izcovich et Albert Nguyên en 2013[8]. Sont à connaître également les travaux de référence d’Éric Marty[9] notamment son édition critique du Journal[10] d’André Gide, ainsi que la biographie monumentale de Franck Lestringant[11], André Gide l’inquiéteur publiée en 2011 et 2012.

Ce n’est pas sans appréhension que je fais part ici d’un texte préparatoire à un projet plus ambitieux qui prendra, je l’espère, la forme d’un livre. Quoi qu’il en soit je me place sous l’égide de Lacan en commençant par la fin, c’est-à-dire, par l’une des dernières occurrences où Gide est nommément cité. Lacan :

 

Il est tout à fait certains que les homos, ça bande bien mieux, et plus souvent, et plus ferme. (…) Ne vous y trompez pas tout de même, il y a homo et homo. Je ne parle pas d’André Gide. Il ne faut pas croire qu’il était un homo.

Ne perdons pas la corde, il s’agit du sens. Pour que quelque chose ait du sens, dans l’état actuel des pensées, c’est triste à dire, mais il faut que ça se pose comme normal. C’est bien pour ça qu’André Gide voulait que l’homosexualité fût normale. Et, comme vous pouvez peut-être en avoir des échos, dans ce sens il y a foule. En moins de deux, ça, ça va tomber sous la cloche du normal, à tel point qu’on aura de nouveaux clients en psychanalyse qui viendront vous dire – Je viens vous trouver parce que je ne pédale pas normalement. Ca va devenir un embouteillage.[12]

Deux points, à l’articulation du cas et du collectif, sont à relever dans cet extrait du séminaire …Ou pire, daté du 3 février 1972. D’une part, Lacan signale une normalisation sociale de l’homosexualité à laquelle il dit assister. De l’autre, il prend position concernant le choix d’objet sexuel de l’écrivain français. Alors André Gide, homo ou pas homo ? Il me faut ici trancher et je le fais dans le sens de Lacan… oui André Gide est bien un homo ! Car, lorsque Lacan écrit à propos de Gide : « il ne faut pas croire qu’il était un homo », il ne dit pas que Gide était un hétéro, il déclare qu’il n’était pas un homo. Pourquoi ? Parce qu’il y a « homo et homo ». Autrement dit, Gide n’est pas un homo parce qu’il est un homo. D’une autre espèce. C’est-à-dire… un uraniste. Or, à se pencher même rapidement sur le lexique lacanien de l’homosexualité masculine, je note que Lacan fait usage du signifiant « uraniste »[13] à trois reprises dans tout l’œuvre, toujours articulé à un propos sur Gide. Par conséquent, les signifiants « uraniste » et « Gide » sont épinglés l’un à l’autre. C’est donc dans cette perspective que je déploierai mes remarques.

Texte à part disais-je, texte oublié plutôt… Selon Hellebois, il faut attendre l’année 1983-84 et surtout 1993 pour que Jacques-Alain Miller le sorte de l’ombre[14]. L’illustre Derrida serait passé à côté[15]… Les raisons de cette mise au placard se déduiraient d’un texte d’abord difficile qui croule sous les références — pas moins d’une trentaine d’auteurs cités outre la quinzaine d’ouvrages de Gide. Autre difficulté : sa nature de compte-rendu de lecture par lequel Lacan, qui est son obligé, salue avec emphase les travaux de Delay qui accueille le Séminaire à l’Hôpital Saint-Anne. Enfin cet oubli s’expliquerait par le fait que Lacan écrit dans un style parfois hermétique, pour la revue Critique, c’est-à-dire pour un public qui n’est pas le sien habituellement. Texte oublié donc et texte secondaire également… C’est ce qu’avance Marty[16] qui relève que Jeunesse de Gide ou la lettre et le désir ne figure pas dans l’édition de poche des Ecrits… du moins celle de 1970, dite abrégée…. il faudra attendre 1992, moment où Miller reprend le dossier Gide. C’est donc d’une oblitération partielle qu’il s’agit. De quel sens est porteuse cette oblitération ? Que s’agit-il de taire, de rejeter ? Ce pourrait-il qu’un point aveugle travaille le texte de Lacan inaperçu des lacaniens et qui motive son rejet ? Cette oblitération partielle est d’autant plus étonnante que l’écrit sur Gide comporte des avancées théoriques majeures. Comment est-il possible qu’un texte qui préfigure la conceptualisation de l’objet petit a, qui situe au regard de l’autodafé de Madeleine Gide, ce qu’il en est du désir des femmes articulé à ce que Markos Zafiropoulos nomme la « révolution du phallus »[17], comment est-il possible donc, qu’un tel texte puisse être au final… subalterne ?

Avant de proposer une réponse à cette question, je souhaite évoquer quelques points à garder à l’esprit lorsqu’on se penche sur l’œuvre de Gide. Je rappellerai aussi la vie de l’écrivain en quelques lignes.

Première difficulté, l’œuvre de Gide elle-même. Son ampleur est telle — près de 10.000 pages dans la prestigieuse collection La Pléiade chez Gallimard — qu’au petit jeu de la citation édifiante, on sort toujours gagnant. L’œuvre est si vaste, si monstrueusement riche qu’on peut lui faire dire à peu près ce qu’on veut ; il est aisé d’y prélever ici ou là, à la faveur des notes et variantes, tel ou tel argument qui viendrait ou reconduire ou dénoncer ce qu’on croit savoir des mœurs gidiennes. Par conséquent, la lecture littérale du texte gidien, notamment celle de Delay mais aussi de bon nombre de psychanalystes qui ont repris le cas Gide après Lacan, reste problématique tant Gide, dans son œuvre comme dans sa vie, manie avec virtuosité la contradiction, échappant ainsi à toute tentative naïve pour fixer le sens d’une vie dont le secret reste fondamentalement impénétrable. Attribuer aux récits autobiographiques de Gide, comme aux autres récits et soties, une valeur de témoignage dont il s’agirait de prélever des fragments au service de la démonstration est une posture au mieux positiviste — l’écrit gidien (son âme aussi) se révèlerait dans la transparence de son énoncé — au pire idéologique — le commentaire supplantant l’écrit gidien. C’est oublier que Gide est avant tout un auteur qui compose. Que tout écrit a son épaisseur. Qu’il participe d’un ordre discursif soumis à ses propres règles — par exemple les références à la Bible ou à l’Antique. Qu’il possède son propre régime de véridiction. Je prends par exemple l’anecdote de la rencontre avec Ali dans les dunes de Sousse en novembre 1893[18]. Cette scène, qui déborde de sensualité lyrique dans Si le grain ne meurt où Gide reconduit le motif apollinien du jeune berger joueur de flûte cher à Virgile, est rendue d’une manière crue dans les notes préparatoires où il est plutôt question de la négociation d’une pédication entre le voyageur fortuné et un jeune prostitué tunisien[19]. Or, l’affirmation est rectifiée aussitôt qu’écrite, Gide indiquant entre parenthèses, à l’intention de lui-même et du lecteur éventuel de ses notes : « Du reste je n’en profitais point ; mon désir n’avait rien de féroce (…)[20]. Où est le vrai ici ? Moins dans ce qui est dit ou contredit, que dans l’effet produit sur Gide — et son lecteur — comme cette rencontre avec Ali qui contribua à changer la vie de l’écrivain et d’une certaine manière, la mienne.

Autre difficulté liée à la première, la construction en miroir dans l’œuvre de Gide reconduite par Lacan et le poids du commentaire. Ici je passe très vite sur une question qui mériterait de plus amples développements tant Gide est passé maître dans l’art du reflet[21]. L’un des traits marquants de cette œuvre est la mise en abyme, procédé stylistique qui montre sans doute la volonté de Gide de tenter de saisir l’entièreté du réel qui sera déployée à son maximum dans Les Faux monnayeurs auquel répond, bien sûr, un Journal des faux monnayeurs. De même, la première scène de Paludes décrit effectivement le narrateur écrivant un livre qui s’appelle Paludes. Mais les livres de Gide se répondent entre eux également ; par exemple : alors que Gide vit en Algérie les expériences du Michel de L’immoraliste, il est en train de concevoir La Porte étroite qui en est le pendant. Or, si l’on suit Pierre Masson, cet ensemble complexe l’est encore plus car placé, par Gide, sous le regard de Madeleine, « miroir approbateur » d’une « vie qui s’y tisse devant elle »[22]… du moins jusqu’en novembre 1918, date où elle détruit l’essentiel des lettres reçues de l’écrivain. Mais il y a plus. L’article de Lacan n’est pas une étude sur Gide mais un compte-rendu de lecture de deux livres qui ne seraient guère lus aujourd’hui, si Lacan ne s’y était penché. Par conséquent, l’argumentaire de Lacan se déduit du travail de Delay sur Gide complété du commentaire de Schlumberger, comme du reste les commentateurs de Lacan parlent de Gide à travers le psychanalyste français, à travers Delay et Schlumberger. Enfin, le titre de Lacan, Jeunesse de Gide, recouvre désormais celui de Delay alors que ce dernier en est la référence principale. Et finalement, ce que dit Lacan, c’est que cette logique en miroir est un effet de l’adresse de Gide à la postérité car, au final, c’est pour le « psychobiographe » qu’il ouvre les armoires, qu’il autorise la consultation des vieux documents et des petits papiers[23], lui qui, dès sa jeunesse voulait, semble-t-il, « vivre sa vie du point de vue où elle sera écrite »[24]. Mais peut-être, le fait le plus significatif, non relevé par Lacan, est-il celui-ci : Gide signale qu’il écrivait sur un petit bureau-secrétaire, du moins dans les premières années de sa carrière, légué par feue Anna Schakelton, la dame de compagnie de sa mère. Ce bureau-secrétaire présentait des portes garnies de miroirs réfractant à l’infini l’image de qui s’y tenait… Gide écrivait donc — comble de la fascination spéculaire… — se contemplant en train d’écrire[25]

Enfin, le contexte dans lequel Lacan rédige son texte mérite d’être rapidement précisé. D’une part l’écrit sur Gide est rédigé à un moment où Lacan refonde plusieurs opérateurs théoriques principalement sous l’effet du transfert à Lévi-Strauss comme l’a élucidé Markos Zafiropoulos[26]. Par conséquent, Jeunesse de Gide est une pièce de plus à joindre au dossier du Lacan structuraliste car Lévi-Strauss est nommément cité, en l’occurrence son dernier opus : l’Anthropologie structurale[27] … Tout va très vite : le recueil de textes de Lévi-Strauss est prêt en novembre 1957[28] pour une parution début 1958. Or Lacan rédige Jeunesse de Gide durant les congés de février 1958. Que va donc chercher Lacan chez Lévi-Strauss pour l’intelligence du cas Gide ? D’une manière quelque peu vertigineuse pour qui ignore que la psychanalyse propose aussi une théorie du social, le psychanalyste prélève chez l’anthropologue américaniste la solution que celui-ci a fomentée pour résoudre un problème laissé ouvert par Franz Boas concernant les masques à volets des indiens Kwakiutl de Colombie Britannique et le dédoublement de la représentation[29]. De quoi s’agit-il ? Lévi-Strauss cherche à comprendre comment les signifiants marquent les corps. Pour cela il se penche sur ces masques qui ont ceci d’extraordinaire qu’ils s’ouvrent par un jeu de ficelles et de poulies pour laisser apparaître un second masque, voire un troisième : « Fermé le masque à volets est un objet à trois dimensions ; ouvert, les parties qui le composent sont rabattues sur le même plan[30] ». Leur rôle, explique Lévi-Strauss, est : « D’offrir une série de formes intermédiaires qui assurent le passage du symbole à la signification, du magique au normal, du surnaturel au social. »[31] C’est donc aussi du joint de la nature à la culture dont il est fondamentalement question ici.

Or, selon l’anthropologue, le dédoublement est nécessaire pour assurer l’intégrité du signifiant et sa prise sur le corps. Le découpage du corps par le signifiant s’opère donc par une série de déboîtements — Lévi-Strauss parle de dislocations — qu’assure l’épinglage des signifiants entre eux. C’est pour cela que cette question intéresse Lacan car la question du dédoublement de la représentation caractérise aussi le cas Gide, sa vie comme son œuvre, ce qui en l’espèce est peut-être la même chose. Au final, il apparaît que les travaux de l’anthropologue américaniste viennent vérifier au plan du collectif ce que Lacan repère au plan du cas. S’inscrivant pleinement dans une perspective lévi-straussienne, Lacan inverse ici la logique de vérification introduite par l’anthropologue concernant l’efficacité symbolique[32], logique que Lacan avait déjà eu l’occasion d’appliquer, quelques années plus tôt, fournissant une « preuve par la psychose » à la théorie du signifiant flottant de l’anthropologue[33].

D’autre part, second élément contextuel à considérer : la situation sociale des homosexuels dans la première moitié du XXème siècle. Il est utile de rappeler ceci : depuis notamment la refonte du droit opéré sous Napoléon 1er, la France apparaît relativement tolérante sur cette question au regard des législations des autres pays européens. Des lieux de sociabilité homosexuelle apparaissent, largement évoqués par Gide dans sa correspondance. Toutefois, la condamnation morale qui accompagne l’homosexualité reste très élevée et il n’est pas tolérable d’afficher publiquement ses préférences… la honte, le déshonneur, le chantage et son cortège d’humiliations, voire la ruine, accompagnent toutes celles et ceux qui auraient des velléités de sortir de l’ombre. La situation empire sous le régime de Vichy qui en 1942 durcit l’appareil législatif. L’historien Julian Jackson le rappelle :

La modification de la loi reflète la croisade morale menée par le régime de Vichy pour regénérer une population « ravagée d’alcoolisme, pourrie d’érotisme, rongée de dénatalité »[34]

… comme le propage le pétainisme ambiant. André Gide du reste, est l’objet d’un scandale car il est accusé à cette époque rien de moins que d’être responsable, par ses écrits, de la décadence du pays[35]. La fin de la guerre ne voit pas la remise en cause de cette législation, bien au contraire. Ainsi, en 1960, le député Paul Mirguet obtiendra le vote d’un amendement éponyme faisant de l’homosexualité masculine un fléau social au même titre que l’alcoolisme, la tuberculose et la prostitution. Il faudra attendre le début des années 1980 pour la remise en cause de cette législation répressive[36]. Tel est donc le contexte dans lequel Lacan se penche sur le cas Gide. Il faut s’en souvenir car, pour paraphraser Lévi-Strauss à propos de l’anthropologie, si la société est dans la psychanalyse, la psychanalyse est dans la société. Ce n’est donc pas la même chose pour un psychanalyste d’accueillir un analysant pour une question qui, par ailleurs, relève ou non d’un délit. Plus fondamentalement, cela est vrai également s’agissant de la question de la connaissance et ses déterminants comme le souligne Georges Lantéri-Laura qui indique, s’agissant des perversions :

C’est la doxa qui délimite le champ des phénomènes dont traite l’épistémè : l’opinion — poursuit-il — vient indiquer le domaine des comportements pervers, et la connaissance reste à cet égard tributaire de l’opinion, même si elle modifie en cours de route l’étendue de ce champ.[37]

Selon cette perspective, il convient d’avoir à l’esprit l’air du temps concernant la vie sociale des homosexuels dans la France de la première moitié du XXe siècle, pour ensuite repérer dans quelle mesure le texte de Lacan sur Gide en est éventuellement affecté. Or, il convient de noter, d’emblée, que Lacan se distingue par sa position d’ouverture sur une question qui suscite plutôt du dégoût.

 

J’en viens à la vie de Gide et à l’usage qu’en ont fait les commentateurs de Lacan. André Gide, né à Paris en 1869, est un fils de la bourgeoisie huguenote qui évolue dans un milieu social que caractérisent trois termes : austérité, fortune, culture. Orphelin de père à dix ans, il nourrit à partir de l’adolescence des sentiments amoureux pour sa cousine Madeleine qu’il épouse en 1895 — non sans péripéties — quelques mois après le décès de sa mère. La jeunesse de Gide est celle d’un enfant délicat, souffreteux et en échec scolaire. En 1893, à vingt-quatre ans, Gide voyage en Tunisie et en Algérie où, comme d’autres, il s’initie à la sexualité auprès d’adolescents et de prostituées. Le mariage avec Madeleine n’est pas consommé et Gide organise sa vie entre l’amour intense qu’il porte à son épouse et le désir qui le pousse vers les hommes, qu’il s’agisse d’adolescents ou d’adultes comme par exemple Henri Ghéon ou Maurice Schlumberger, encore que, comme le souligne Éric Marty, la séparation amour-désir que proclame Gide est loin d’être étanche[38]. En 1916, à quarante-sept ans, alors qu’il est déjà un écrivain renommé, Gide tombe amoureux de Marc Allégret, seize ans. Le jeune homme est l’un des fils du pasteur Elie Allégret chargé un temps de l’instruction religieuse de l’adolescent Gide. Débute alors avec Marc une idylle qui durera quelques mois pour ensuite évoluer en une relation d’amour et de confiance jusqu’à la mort de Gide en 1951, même s’il semble que leur vie intime cesse à partir des années 1920. J’insiste sur ce point : avec Marc Allégret, la ségrégation établie par Gide entre le sexuel et l’affectif vole en éclats puisqu’avec lui se mêlent désir et sentiments. Du reste, j’ai déjà noté que Marc, malgré le statut d’exception que lui confère Gide, ne fut pas le seul amant pour qui l’écrivain développa des sentiments et ce, à côté d’une intense activité de drague homosexuelle[39]. A la même époque, plusieurs proches d’André Gide, Maria Van Rysselberghe, sa fille Elisabeth, Aline Mayrish, Dorothy Bussy, et Marc Allégret forment une famille d’élection qui vivra plus ou moins ensemble, notamment, dans l’appartement parisien rue Vanneau. Ce groupe d’amis est si soudé que, comme le relate Roger Martin du Gard, lorsqu’on parle dans le Paris mondain de l’époque « des Gide » c’est désormais de cette drôle de famille qu’il s’agit et non d’André et Madeleine. Du reste la relation entre les deux époux s’est dégradée et le restera jusqu’à la mort de Madeleine en 1938 même si elle partagera ses combats à propos du Tchad et de la Russie. Ainsi, en juin 1918, alors que Gide prépare un séjour de trois mois à Cambridge avec Marc Allégret, une violente dispute éclate entre l’écrivain et Madeleine la veille du départ. En novembre 1918, Gide découvre que Madeleine a brûlé quelques mois plus tôt à peu près toutes les lettres qu’il lui avait adressées quasi quotidiennement depuis leur adolescence, non sans les avoir relues une à une. Au début des années 1920, Marc Allégret et Elisabeth Van Rysselberghe vivent une histoire d’amour que ne consacre pas la venue d’un enfant. C’est finalement André Gide qui sera le père de l’enfant — la future Catherine Gide — qu’Elisabeth désire :

Et c’est ainsi – écrit Maria, la mère d’Elisabeth – qu’un dimanche de juillet, au bord de la mer, dans la solitude matinale d’un beau jour, fut conçu l’enfant que nous attendions[40].

En 1947, Gide dont la notoriété éclate durant l’entre-deux-guerres reçoit le Prix Nobel de littérature. Il meurt à Paris en 1951. Un an après l’œuvre entière est mise à l’Index librorum prohibitorum sur décision du pape Pie XII.

Il était crucial de rappeler les principaux moments de la vie de Gide car les travaux psychanalytiques qui succèdent au texte de Lacan reconduisent le découpage chronologique opéré par le maître — grosso modo 1869-1895 et la crise de 1918 — comme si, curieusement, la vie de Gide avait cessé au point où le psychanalyste le laisse. De même, on trouve de nombreuses approximations. Ainsi Miller déclare :

Ce qui concerne le choix d’objet homosexuel est donc tout à fait relégué au second plan par Lacan. Toute son analyse est au contraire centrée sur l’amour unique de Gide, c’est-à-dire son choix d’objet hétérosexuel. A côté de la multiplicité [des] petits garçons, il y a une femme et une seule authentiquement aimée.[41]

Tout ici est biaisé : l’amour unique de Gide, les petits garçons, la femme authentiquement aimée. Car, je l’ai indiqué, Gide aimera tout aussi « authentiquement » Marc et d’autres avant lui qui n’étaient pas seulement des « petits garçons » — j’ai cité Henri Ghéon ou Maurice Schlumberger ce que du reste atteste largement la correspondance. Hellebois pour sa part affirme à propos du voyage en Tunisie et en Algérie :

Ce n’est effectivement pas la rencontre de jeunes arabes qui le transforma, mais autre chose, des lectures notamment, et surtout celle de Goethe qui lui apporta, peu après ses vingt ans, le signifiant nécessaire à s’orienter dans l’existence.[42]

Question : quelqu’un s’est-il jamais masturbé sur une page de Goethe ? Ici, ce qui est questionnable c’est bien plutôt l’effort d’Hellebois pour désexualiser — en sa version homosexuée — la vie de Gide. N’est-il pas saugrenu de convoquer l’immarcessible génie allemand alors qu’il s’agit, pour Gide, d’éprouvés inouïs, de sensations nouvelles qu’il découvre auprès de « jeunes arabes » bien aimables pour lui accorder des privautés, du plaisir qu’il y prend à un moment où, comme son père, il se sait malade de la tuberculose[43] ? Bref, ici, Gide mesure que sa jouissance jusque-là mortifère trouve d’autres voies, en l’occurrence du côté de la palingénésie. Autre erreur grossière reconduite ad nauseam : Mathilde la mère de Madeleine, présentée comme une séductrice à la peau brune qui, par son acte, aurait offert à Gide le laid, la possibilité d’une part, d’être un objet désiré, et de l’autre de désirer préférentiellement les adolescents à la peau basanée[44]. Sauf qu’il est établi que la mère de Madeleine, née au Havre avait un teint de crème… à la différence de l’héroïne de La Porte étroite, Lucile Bucolin pendant littéraire de Mathilde, que Gide exotise à souhait[45].

Je reviens à Lacan. S’il signale tout juste la relation entre Gide et Marc Allégret, c’est a priori parce que son compte-rendu de lecture porte sur l’enfance de Gide d’après Delay jusqu’au mariage avec Madeleine en 1895, c’est-à-dire, une vingtaine d’années avant leur rencontre. Je note aussi que les sources historiographiques disponibles sur l’écrivain au moment où Lacan réfléchit sur le cas Gide n’ont pas l’ampleur considérable qu’elles ont acquises depuis et qui restent à la disposition de qui veut bien les lire[46]. Ni Delay, ni Schlumberger, ni Lacan ne citent explicitement Marc Allégret, sans doute pour des questions de discrétion, mais le psychanalyste ne l’ignore pas et place cette histoire-là sous le registre de l’amour lorsqu’il écrit : « L’amour, le premier auquel accède en dehors d’elle, cet homme [Gide] (…) [Madeleine] le reconnaît (…) »[47].

Et bien sûr, Lacan est conséquent lorsqu’il situe la relation avec Marc dans le registre de l’amour puisque en 1960-1961, c’est-à-dire, dans deux ans, il déploiera la question du transfert à partir de l’idéal de l’amour grec dont il relève que la relation Gide — Marc Allégret en est l’expression moderne[48]. En revanche, ce point malgré la piste ouverte par Lacan, n’est pas vraiment aperçu par les autres psychanalystes qui reprendront le dossier Gide au-delà du commentaire sur l’ouvrage de Jean Delay, comme si nos collègues, sortes d’agents du refoulement, jouissaient d’un privilège épistémologique les confortant dans l’ignorance que révèle tout préjugé. Mais peut-être ce refoulement n’est-il que l’effet d’une idéalisation de l’amour entre un homme et une femme qui exclut toute expression minoritaire. Or, et c’est lui faire honneur que de le rappeler, à la différence de bon nombre de nos collègues, il y en a une qui a bien compris l’importance particulière de Marc Allégret pour André Gide : c’est Madeleine… car s’y trouve la justification de son acte. Ce qui se passe en ce mois de juin 1918 où se trame le séjour à Cambridge, elle le sent bien, elle le sait déjà c’est autre chose que les amitiés amoureuses dont elle a eu vent. Pour tenir sa position, être à la hauteur de la situation, un seul acte s’impose : détruire par le feu toutes les lettres qu’il lui a écrites depuis tant d’années ; c’est dire qu’elle a compris que cette fois Gide trouve avec Marc, en Marc, ce qu’il n’a cessé de disjoindre quant à l’amour et au désir. Désormais, les deux pôles sont réunis. Une seule chose à faire pour Madeleine : tenir son rang, être cette figure de l’entièreté dont parle Lacan en évoquant Médée[49]. Statue déboulonnée, Madeleine n’est plus l’idole macérant dans la vertu, la vierge vivant sous « un ciel de demoiselle »[50] ; l’assomption de son être que signe l’autodafé de la correspondance, c’est finalement au jeune Marc — en tant qu’il en est l’agent — qu’elle le doit. Certes, pour Gide, Madeleine est la femme de sa vie. Son grand amour. Mais de quelle vie parle-t-on ? Madeleine est une dévote dédiée au père mort, une vierge sage qu’affole l’égarement des sens comme les imprévus, qui incarne, comme du reste sa belle-mère, les « commandements du devoir »[51], auprès de laquelle surtout, Gide déclare qu’il y pourrissait[52]. Or, la formule, « Je pourrissais »[53], je la rapproche du roman de Mishima paru en 1971, L’Ange en décomposition[54], dont Marguerite Yourcenar dira du titre, préférer une meilleure traduction : L’Ange pourrit[55]. Mais c’est encore du côté de Lacan qu’il nous faut regarder lorsqu’il évoque la « pourriture dans l’Autre », c’est-à-dire son étrification phallique, telle que l’a mise en évidence Zafiropoulos[56].

 

Si je reviens plus avant sur ce point, au préalable, il convient de signaler ce que les fameux masques Kwakiutl permettent d’éclairer. La question qui se pose est celle-ci : comment expliquer, à partir des outils psychanalytiques, le déboîtement que Gide l’uraniste opère de Madeleine à Marc en tant qu’objet d’amour en considérant que dans l’opération ce qui de l’amour et du désir était disjoint, se trouve conjoint ? Et d’ailleurs, plus fondamentalement, la question posée est celle-ci : en quoi la mise en évidence de l’amour de l’écrivain pour Marc modifie ou pas ce que Lacan avance sur le cas Gide ? Ces questions ne trouveront pas une réponse ferme ici mais je voudrais néanmoins ouvrir des pistes.

Gide l’uraniste d’abord : je note qu’il s’agit ici d’une reprise par Lacan d’un terme utilisé par Gide lui-même[57]. A son époque, le terme, d’origine allemande, est fréquent parmi d’autres et ce depuis la seconde moitié du XIXème siècle[58]. Il est proche du terme « gay » aujourd’hui, au sens où il ne qualifie pas un comportement sexuel mais plutôt une manière d’être. Gide :

[Madeleine] avait voulu la solitude totale, et que l’avenir ne sût rien d’elle, ne pût prononcer son nom à côté du mien… Elle avait tout brûlé ![59] J’ai passé tout l’hiver à souffrir (…). Je ne faisais plus rien que souffrir, que pleurer mon enfant mort. (…) Ma vie, désormais, était faussée : il ne subsisterait de moi qu’une image incomplète, inexacte, caricaturale, grimaçante ; ce qui était mon véritable reflet, avait été effacé à jamais. (…) Personne ne peut soupçonner ce qu’est l’amour d’un uraniste, dégagé de toutes les contingences sexuelles : quelque chose de si fort, de si bien préservé, quelque chose d’embaumé contre quoi le temps n’a pas de prise… »[60]

S’entend ici la préservation du signe de ce qui est le plus désiré, à savoir le phallus — fut-il mort — que seul l’uraniste, selon Gide, est en mesure de protéger par l’embaumement, c’est-à-dire par la préservation de la forme pour toujours… au prix d’une immobilisante étrification phallique. Or, cette étrification phallique, sorte d’arrêt sur image, celle que désire la mère, est à saisir comme une captation imaginaire — être le phallus de la mère : c’est-à-dire répondre à son désir — de laquelle le petit d’homme ne peut se déprendre, selon Lacan, qu’à désinvestir son image du moi au prix d’un retranchement d’une part de sa libido narcissique, au nom de l’Autre de la loi[61] à qui il s’adressera, désormais, dans l’illusion d’un appel entendu. C’est pourquoi la destruction des lettres — l’enfant d’André et de Madeleine — porte atteinte à l’image de Gide lui-même renvoyé par l’acte de Madeleine à une « image incomplète, inexacte, caricaturale, grimaçante » dont on est tenté d’écrire que c’est celle que les psychanalystes ont trop souvent retenu. Certes, « son véritable reflet » est « effacé à jamais », mais cette perte qui signe ici cet accès au « lieu du symbolique sans image »[62] ouvre la voie à l’amour défait de son mirage céleste. Le lien Madeleine-Gide-les lettres évoque le triangle préœdipien (Mère, Enfant, Phallus) proposé par Lacan dans le séminaire V[63]. Plus exactement, juste le temps d’après car Madeleine n’est pas la mère et l’épinglage du signifiant de Madeleine à la mère paraît peu consistant au point que son désamorçage rejette Gide dans les temps angoissants du préœdipien. Pourquoi ? Parce que Madeleine ne fait pas le poids par rapport à la mère. C’est plutôt une sœur, sorte d’Antigone triste, prisonnière du tombeau de Cuverville où elle se retrouve seule. Car, il faut noter qu’à la même époque, la correspondance avec Marc n’est pas du tout entachée par les événements tragiques que Gide déclare avoir vécu en novembre 1918[64]. C’est-à-dire que Gide, quoi qu’il en dise, s’agissant des lettres perdues, n’est pas tout à sa peine. Au même moment, autre chose le mobilise, le rend vivant qu’il trouve en Marc[65]. Dit autrement, Gide peut désormais investir suffisamment de libido dans sa relation à Marc et semble moins dévasté qu’il ne le proclame… l’aspect comique du moment n’ayant pas échappé à Lacan.

Ensuite, un point crucial est à relever : quelques temps après leur rencontre, je note, dans les pages du Journal, que la lettre « M » qui désignait Madeleine auparavant — on trouve également la forme « Em. » en lien avec l’Emmanuelle des Cahiers d’André Walter — désigne désormais le jeune amant[66]….  Je note aussi qu’une lecture minutieuse révèle que, vers 1905, la lettre « M » désignait tout autant Maurice Schlumberger auprès de qui Gide connaitra sa première histoire d’amour (où se mêleront sentiments et plaisirs)[67]. Il n’est donc pas excessif d’écrire que, à proprement parler, la lettre du désir chez Gide, est la lettre « M » ainsi que le lieu de son épinglage… D’ailleurs, cette lettre « M » est souvent l’initiale des êtres qui ont compté : la Mère, Mathilde la tante séductrice, Mériem la prostituée qu’il partage avec son ami Paul Laurens, Mohammed qui condense la série des amants de passage (Ali, Athman, Ferdinand, etc.), Maria l’amie la plus proche, Madeleine bien sûr, et enfin Marc dont la rencontre va stabiliser ce qui avant l’était moins. Mais le « M » de Madeleine n’est pas le « M » de Marc, puisque, d’un signifiant à l’autre, c’est toute la logique désirante de Gide qui s’en trouve modifiée. Cette lettre « M » est donc le pivot qui permet l’ouverture du masque et le dédoublement signifiant. Emerge alors, dans le fantasme gidien, la figure qui brille par son absence, dont il peut occuper la place : le père mort lorsque Gide avait dix ans que dédouble la figure du pasteur Allégret, lui-même plus souvent au Cameroun en qualité de missionnaire qu’auprès de sa famille ; au point du reste qu’il confia femme et enfants à Gide en le gratifiant du titre de « vicepère »[68] ! Pour Gide, c’est donc une solution par l’idéal du moi, donc le père, qui se dessine, dont Lacan dit que non seulement « il se peint sur ce masque complexe », une fois le masque ouvert, mais aussi « se forme (…) par l’adoption inconsciente de l’image même de l’Autre (…). »[69] En quoi cela permet-il à Gide de conjoindre amour et désir ? Parce qu’à occuper pour Marc ce lieu du père, Gide retrouve la parole de son propre père, parole nous dit Lacan qui « humanise le désir. »[70]

Enfin et pour conclure, je reviens à Lacan et à la fameuse phrase du 22 janvier 1958 :

Personne n’a jamais pu épingler une signification à un signifiant. En revanche, ce que l’on peut faire, c’est épingler un signifiant à un signifiant et voir ce que             cela donne. Dans ce cas, il se produit toujours quelque chose de nouveau, qui est quelquefois aussi inattendu qu’une réaction chimique[71].

Or, avec Gide, quelque chose d’ « aussi inattendu qu’une réaction chimique » s’est produit. En effet, ce qui se produit c’est une nouvelle signification qui va installer la question de l’alliance et de la filiation pour les homosexuels au fronton des idéaux de notre culture. D’où la mise à l’index pontificale en 1952, d’où l’aveuglement des lacaniens s’agissant de la valeur d’un texte partiellement oblitéré pendant plus de 20 ans, d’où la normalisation sociale de l’homosexualité repérée par Lacan en 1972 que j’évoquais en début d’article. Ce qu’annonçait le psychanalyste c’était rien moins que la fin de la hiérarchisation juridique du sexuel qui prévalait alors dans le monde occidental — donc, pour une part, dans le symbolique — et cette remise en cause de la hiérarchisation du sexuel en son versant homosexuel, c’est, à tort ou à raison, à Gide qu’il l’imputait. Or, depuis 1972, il est aisé de mesurer la justesse du diagnostic de Lacan et combien les évolutions du droit ont modifié les conditions sociales tant des femmes que des homosexuels quoi qu’aient pu en penser les psychanalystes, dont il faut rappeler les propos particulièrement mal situés concernant la question de l’alliance et de la filiation pour toutes celles et ceux vivant une sexualité minorisée. Ainsi, le vote du Pacs en 1999, le mariage pour tous en 2013, et prochainement, l’extension de la PMA aux femmes en couple ou célibataires, ont incontestablement modifié les lignes de partage du viable et du vivable dans la culture pour celles et ceux qui ont un choix d’objet non conforme et les autres. Or, la part de Gide dans cette opération est considérable selon Lacan qui n’hésite pas à placer Corydon au même niveau que les Trois essais sur la théorie sexuelle[72]. L’assomption d’un « Je » homosexuel via une solution par le père — opération que Gide est le premier à avoir effectuée dans la littérature française semble-t-il[73] — a en effet dégagé des perspectives, ouvert des voies nouvelles d’expression et de narration, étendu un peu plus, comme le dit Lévi-Strauss, l’humanisme à la mesure de l’humanité.

[1] J. LACAN, « Jeunesse de Gide ou la lettre et le désir. Sur un livre de Jean Delay et un autre de Jean Schlumberger », Ecrits, Paris, Le Seuil, 1966, p. 739-764.

[2] J. DELAY, La jeunesse d’André Gide, Paris, Gallimard, 1956/1957, 2 vol., 1277 p.

[3] J. SCHLUMBERGER, Madeleine et André Gide, Paris, Gallimard, 1957, 251 p.

[4] J. LACAN, « Jeunesse de Gide ou la lettre et le désir. Sur un livre de Jean Delay et un autre de Jean Schlumberger », Critique, 1958, n°131, p. 291-315.

[5] J.-A. MILLER, « Sur le Gide de Lacan », La Cause Freudienne, revue de psychanalyse – Critique de la sublimation, Paris, Navarin Seuil, 1993, p. 7-38.

[6] C. MILLOT, Gide Genet Mishima. Intelligence de la perversion, Paris, Gallimard, 1996, 168 p.

[7] Ph. HELLEBOIS, Lacan lecteur de Gide, Paris, Editions Michèle, 2011, 157 p.

[8] L. IZCOVICH, « Gide, de la mystique à la lettre », L’En-jeu lacanien, 2013/2, n°21, p. 25-39 ; A. NGUYÊN, « Destins de l’inauthentique : le feu sans fumée dans la ténèbre. André Gide et les lettres brûlées », L’en-je lacanien, 2013/1 (n°20), p. 71-93 ; A. NGUYÊN, « Un devoir de sincérité : Gide à la question », L’en-je lacanien, 2013/2 (n°21), p. 41-68.

[9] E. MARTY, L’écriture du jour : le Journal d’André Gide, Paris, Le Seuil, 1985, 276 p. ; E. MARTY, « Lacan et Gide ou L’autre école », Lacan et la littérature, Houilles, Editions Manucius, 2005, p. 125-146.

[10] A. GIDE, Journal 1 (1887-1925), Paris, Gallimard, tome 1, 1748 p. ; A. GIDE, Journal 2 (1926-1950), Paris, Gallimard, tome 2, 1649 p.

[11] F. LESTRINGANT, André Gide l’inquiéteur, Paris, Flammarion, 2011/2012, 2 vol., 2014 p.

[12] J. LACAN, Le Séminaire. Livre XIX, … Ou pire (1971-1972), Paris, Le Seuil, 2011, p. 71.

[13] Les trois occurrences du terme « uraniste » chez Lacan sont : « Jeunesse de Gide », op. cit., p. 754 ; Le Séminaire. Livre V : Les Formations de l’inconscient (1957-1958), Paris, Le Seuil, 1998, p. 261 ; Le Séminaire. Livre VI : Le Désir et son interprétation (1958-1959), Paris, La Martinière, 2013, p. 546. Notons l’hapax « uranien » présent dans : Le Séminaire. Livre X : L’Angoisse (1962-1963), Paris, Le Seuil, 2004, p. 312. Voir L. LE CORRE, L’Homosexualité de Freud. Première contribution à une anthropologie psychanalytique de l’homosexualité masculine, Thèse de doctorat soutenue le 28 février 2015, Ecole doctorale Recherches en psychanalyse et psychopathologie, Université Paris Diderot, vol. 3, annexe 2, p. 903-1058 p.

[14] Ph. HELLEBOIS, op. cit., p. 17.

[15] Ibid. p. 7.

[16] E. MARTY, « Lacan et Gide ou l’autre école », op. cit., p. 126.

[17] M. ZAFIROPOULOS, Les Mythologiques de Lacan. La prison de verre du fantasme : Œdipe roi, Le diable amoureux, Hamlet, Toulouse, Erès, 2017, p. 33-62.

[18] A. GIDE, Si le grain ne meurt, Paris, Gallimard, 1929, p. 300-302.

[19] Lestringant signale ce passage des notes préparatoires de 1910 de Si le grain ne meurt : « Il y eut des gros mots prononcés à cette occasion, et quelques obscénités. Quand le gamin tranche les attaches de sa culotte au moyen d’un coutelas (…), André le prend et lui murmure à l’oreille : ‘’Tu veux que je t’enc…’’ Ali répond, nullement surpris ; ‘’Comme tu veux’’, et docilement il se met en position. » Voir : F. LESTRINGANT, André Gide l’inquiéteur, op. cit., vol. 1, p. 246.

[20] Ibid., p. 246.

[21] L. DÄLLENBACH, Le récit spéculaire. Essai sur la mise en abyme, Paris, Le Seuil, 1977, 247 p.

[22] P. MASSON, « Les lettres brulées ou le chef d’œuvre inconnu de Gide », Bulletin des Amis d’André Gide, avril-juillet 1988, n°78-79, p. 77.

[23] J. LACAN, « Jeunesse de Gide », op. cit., p. 741-744.

[24] Ph. HELLEBOIS, op. cit., p. 16.

[25] J. LAMBERT, Gide familier, Lyon, Presses Universitaires de Lyon, 2000, 214 p. Voir aussi : A. GIDE, Si le grain ne meurt, op. cit., p. 235.

[26] Il s’agit de la révolution du phallus et ses enjeux, la théorie du fantasme, la théorie du nouvel Œdipe, la théorie de la sublimation et de l’éthique de la psychanalyse. Voir : M. ZAFIROPOULOS, Les mythologiques de Lacan, op. cit., p. 17.

[27] Cl. LEVI-STRAUSS, Anthropologie structurale, Paris, Plon, 1958, 454 p.

[28] D. BERTHOLET, Claude Lévi-Strauss, Paris, Plon, 2003, p. 231.

[29] Cl. LEVI-STRAUSS, « Le dédoublement de la représentation dans les arts de l’Asie et de l’Amérique », Renaissance. Revue trimestrielle publiée par l’Ecole libre des Hautes Etudes de New York, 1944-1945, vol. 2-3, p. 168-186 ; repris dans Anthropologie structurale, op. cit., p. 269-294.

[30] M. DRACH, M. MAUZE, « Le dédoublement de la représentation : paradoxe de la prise au corps du symbolique », L’anthropologie de Lévi-Strauss et la psychanalyse (dir. M. Drach et B. Toboul), Paris, Editions La Découverte, 2008, p. 39.

[31] Cl. LEVI-STRAUSS, Anthropologie structurale, op. cit., p. 289.

[32] Je rappelle la proposition méthodologique de Lévi-Strauss sur laquelle Lacan s’appuie : « Donc, il est bien vrai qu’en un sens, tout phénomène psychologique est un phénomène sociologique, que le mental s’identifie avec le social. Mais, dans un autre sens, tout se renverse : la preuve du social, elle, ne peut être que mentale ». Voir : Cl. LEVI-STRAUSS, « Introduction à l’œuvre de Marcel Mauss », dans M. MAUSS, Sociologie et anthropologie, Paris, Puf, 1950, p. XXVI.

[33] M. ZAFIROPOULOS, « Psychanalyse et pratiques sociales ou la preuve par la psychanalyse », Recherches en psychanalyse, 2004, vol. 1, n°1, p. 97-118.

[34] J. JACKSON, Arcadie. La vie homosexuelle en France, de l’après-guerre à la dépénalisation, Paris, Autrement, 2009, p. 45.

[35] C. A. EL SOKATi, André Gide au miroir de la critique : « Corydon » entre œuvre et manifeste, thèse de doctorat es lettres soutenue le 19/03/2011, Université de Paris-Est-Créteil, p. 117-145.

[36] F. LEROY-FORGEOT, Histoire juridique de l’homosexualité en Europe, Paris, Puf, 1997, 127 p.

[37] G. LANTERI-LAURA, Lecture des perversions. Histoire de leur appropriation médicale, Paris, Masson, 1979, p. 15.

[38] « [La relation avec Maurice Schlumberger] fut sans doute la première liaison homosexuelle qui ne séparât pas l’amour et les plaisirs. Elle fut aussi pour Gide l’occasion d’une crise intérieure très profonde, qui mettait en cause l’hypocrisie de sa vie et qui ne se résoudra qu’avec la publication de Corydon (…), mais aussi d’une crise avec Madeleine (…). Voir : A. GIDE, Journal, I, op. cit., p. 1487.

[39] P. BILLARD, André Gide et Marc Allégret. Le roman secret, Paris, Plon, 2006, p. 85.

[40] Les Cahiers de la Petite dame. Notes pour l’histoire authentique d’André Gide 1918-1929 / Cahiers André Gide, Paris Gallimard, vol 1, 1973, p. 145-151.

[41] J.-A. MILLER, « Sur le Gide de Lacan », op. cit., p. 13. Miller confond également Maria et Elisabeth Van Rysselberghe considérant que la première est la mère de la fille de Gide… voir p. 17.

[42] Ph. HELLEBOIS, op. cit., p. 107.

[43] Selon Marianne Mercier-Campiche, il ne fait aucun doute que Gide a souffert de tuberculose dans la première moitié des années 1890 : « Repérée dès le premier conseil de révision, la déficience pulmonaire fut identifiée comme ‘’tuberculose’’ au troisième (1892) ; séquelles encore au début de 1895. La gravité de l’état d’André pendant ces années-là est une circonstance qui, pour lui comme pour sa mère, domina la période. (…) Or la question de santé a été sinon complétement ignorée, du moins déformée, minimisée, limitée à rien ou à des effets négligeables. » Voir : M. MERCIER-CAMPICHE, Retouches au portrait d’André Gide jeune, Paris, L’Âge d’Homme, 1994, p. 187-188. Bien sûr, nous la suivons moins lorsqu’elle suppose que la pédophilie de Gide se déduit, au titre des causes déterminantes, de la tuberculose, reconduisant ainsi l’un des topoï les plus éculés qui articulent maladie somatique et homosexualité. Voir (par exemple à l’inverse) : WITRY Dr, « Lettres de deux prêtres homosexuels. Guérison après fièvre typhoïde. Homosexualité et traumatisme. », Annales médico-psychologiques, 1929, 87e année, tome 1, p. 398-419.

[44] Ph. HELLEBOIS, op. cit., p. 107.

[45] F. LESTRINGANT, Gide l’inquiéteur, op. cit., vol. 1, p. 60-61.

[46] Il en va ainsi de la correspondance de Gide avec sa mère, correspondance perdue si l’on en croit Delay mais finalement retrouvée à Cuverville « dans un petit sac de toile portant l’inscription Lettres brodée par Mme Gide elle-même », et publiée seulement en 1988 ; Voir : A. GIDE, Correspondance avec sa mère. 1880-1895, Paris, Gallimard, 1988, p. 15-16.

[47] J. LACAN, « Jeunesse de Gide », op. cit., p. 761.

[48] Ibid., p. 754.

[49] Ibid., p. 761.

[50] A. GIDE, Correspondance avec sa mère, op. cit., p. 171.

[51] J. LACAN, « Jeunesse de Gide », op. cit., p. 749.

[52] « Je lui écrivais que je ne pouvais plus séjourner en Normandie, auprès d’elle ; j’y pourrissais, – je me souviens de ce mot affreux ; que toutes mes forces vitales s’y liquéfiaient, que j’en mourrais, et que je voulais vivre, c’est-à-dire m’évader de là, voyager, faire des rencontres, aimer des êtres, créer ! » Voir : J. SCHLUMBERGER, op. cit. p. 190.

[53] Ibid., p. 192.

[54] Y. MISHIMA, L’Ange en décomposition, Paris, Gallimard, 1971, 249 p.

[55] M. YOURCENAR, Mishima ou la vision du vide, Paris, Gallimard, 1980, p. 15.

[56] M. ZAFIROPOULOS, Œdipe assassiné ? Œdipe roi, Œdipe à Colone, Antigone ou L’inconscient des modernes. Les mythologiques de Lacan 2, Toulouse, Erès, 2019, p. 115-133.

[57] Au point que je suis tenté de considérer le récit Le Voyage d’Urien, non comme le « voyage du Rien » comme le suggère Lacan, suivant Delay, mais plutôt comme le récit halluciné d’un uraniste, dont Gide n’ignore pas que le terme tolère deux variantes : « uranien » et « urnien ». Voir : A. GIDE, Le Voyage d’Urien, Paris, Gallimard, 1929, 165 p. ; J. LACAN, « Jeunesse de Gide », op. cit ;, p. 751 ; Cl. COUROUVE, Vocabulaire de l’homosexualité masculine, Paris, Plon, 1985, p. 221-225 ; J.-M. WITTMANN, « Gide sur les pas de Novalis. Des Disciples à Saïs au Voyage d’Urien », Bulletin des Amis d’André Gide, janvier 2008, XXXVI, 157, p. 15.

[58] M. NEMER, Corydon citoyen. Essai sur André Gide et l’homosexualité, Paris, Gallimard, 2006, p. 46. Voir aussi : L. LE CORRE, L’Homosexualité de Freud, Paris, Puf, 2017, p. 159-160.

[59] Madeleine Gide aimait le feu purificateur comme l’indique une lettre à Gide du 19 mai 1890 : « Tu sais que si tu deviens vraiment célèbre (ce mot est bête, mais je n’en trouve à l’instant pas d’autre), je te rends tes lettres, toi les miennes, nous en faisons un beau feu – et puis fini – plus de lettres, c’est-à-dire rien que des lettres très ordinaires, très insipides. » Voir : A. GIDE, Correspondance avec sa mère, op. cit., p. 64.

[60] J. SCHLUMBERGER, op. cit., p. 193.

[61] M. ZAFIROPOULOS, Œdipe assassiné ?, op. cit. p. 117-167.

[62] Ibid., p. 118.

[63] J. LACAN, Le Séminaire. Livre V : Les formations de l’inconscient (1957-1958), Paris, Le Seuil, 1998, 517 p.

[64] Correspondance avec Marc Allégret 1917-1949 / Cahiers André Gide, Paris, Gallimard, 2005, vol. 19, p. 240-241.

[65] P. MASSON, op. cit., p. 71-78.

[66] Marc Allégret est également désigné par le prénom Michel. Voir : A. GIDE, Journal, I, op. cit., p. 1035.

[67] Ibid., p. 1487.

[68] Lettre d’Elie Allégret du 20/05/1918. Voir : Correspondance avec Marc Allégret, op. cit., p. 18, n. 1.

[69] J. LACAN, « Jeunesse de Gide », op. cit., p. 752.

[70] ibid. p. 753.

[71] J. LACAN, Les formations de l’inconscient, op. cit., p. 196.

[72] J. LACAN, « Jeunesse de Gide », op. cit., p. 763.

[73] M. NEMER, Corydon citoyen, op. cit., 298 p.


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LES FIGURES LITTERAIRES DU FEMININ CHEZ LACAN – Marie PESENTI-IRRMANN

Il y a dans l’œuvre de Lacan nombre de figures littéraires qui lui ont permis  d’approcher la question du féminin, dans cette succession d’impromptus surgis tout au long de son enseignement. Aussi bien auteurs à l’instar des trois Marguerite, Marguerite Pantaine, Marguerite de Navarre, Marguerite Duras qu’héroïnes de la littérature ou du théâtre, telles qu’Antigone, Sygne de Coûfontaine ou Lol V. Stein, elles sont autant de variations sur les partitions de la jouissance et de l’amour qui l’ont éclairé pour aborder l’énigme du féminin laissé par Freud à ses successeurs.

A la manière de Norbert Hanold, suivant le pas de la Gradiva, celle qui marche, mais celle qui marche d’un pas à l’éclat si particulier qu’il brouille les limites du rêve, du délire et de la réalité, Lacan aura emboîté le pas d’un certain nombre de figures féminines qui l’auront mené sur les rives d’un continent qui ne se laisse pas si facilement approcher mais surtout avec lesquelles il aura tressé un nœud particulier. Car il ne s’agit pas pour Lacan d’appliquer la psychanalyse à la littérature ni même comme Freud a pu le faire avec Wilhelm Jensen de rajouter du sens au sens déjà déployé dans le romanesque mais bien plutôt de trouver le moyen d’approcher de ce qui justement se tient hors sens, dans cette quête du réel dont il s’est fait partie prenante.

Comme il le dit dans le séminaire sur Le transfert à propos du désir mais que l’on peut étendre ici à cette question du féminin, Lacan aura suivi deux voies qu’il alterne, celle qui vient définir scientifiquement les choses comme tente de le faire la philosophie depuis Socrate, ce qui pour Lacan prendra la voie de la logique et de ses écritures ainsi que de la topologie et une autre, toute différente, qu’il a trouvée comme il le dit « dans ces monuments de la mémoire humaine que sont les tragédies. » La lecture qu’il propose de ces monuments s’affranchit de toute psychologie car ce qui est en jeu pour lui ne tient pas à la narration qui s’y déplie mais au nœud qu’ils recèlent. Aussi paradoxalement ces figures littéraires auront-elles permis à Lacan d’approcher de ce qui ne peut se dire, de ce qui a trait à cette faille, à cette faillite du symbolique et qui ouvre sur un mystère plus lointain, plus large que l’inconscient freudien, celui qui a trait à la jouissance et plus particulièrement à celle qu’il finira par désigner jouissance Autre, autre que phallique, hors langage. Figures passionnées, elles témoignent, chacune à leur manière, de l’illimité de la jouissance dont elles procèdent et des versions de l’amour auxquelles elles consentent et qui confinent au pur amour.

Si Lacan s’est à ce point intéressé à elles, c’est que ces figures extrêmes l’enseignent bien mieux que de s’en tenir au juste milieu de la normalité si l’on veut, comme il le note :

que notre action se situe de façon orientée, non pas captive (…) du bien, de l’entraide mais de ce qu’il peut y avoir à exiger d’audace, même sous les formes les plus obscures dans l’autre, à l’accompagner dans le transfert.[1]

Jamais Lacan ne dérogera à ce principe, ce qui lui aura permis de ne pas se détourner de l’expérience mystique par exemple sans que jamais il ne la réduise à de la pathologie ou à des affaires de foutre.

Il est tout à fait remarquable de voir combien toutes ces figures féminines qui jalonnent son œuvre ont fait appel pour Lacan, l’aimantant vers des contrées plus insaisissables, celles que ces appelantes du sexe lui désignaient et qui allaient lui permettre de préciser ce qu’il reconnaissait comme éthique à la psychanalyse, une éthique orientée sur le réel en jeu chez le parlêtre, à savoir ce qui fait trou dans l’Autre du langage et ce qui a trait au non rapport dans notre lien au sexuel. Chacune enseignera à Lacan une manière de faire avec ce trou dans la structure, avec cet étheros qu’elle vise. Ces héroïnes tragiques portent le flambeau de ce dessaisissement auquel elles accèdent telle Antigone, « cet être inflexible » qui vise à sortir des limites humaines, de l’ektos atas, de cet au-delà de l’atè, cette victime si terriblement volontaire qui se tient dans l’entre-deux-morts. Comme le dit le chœur antique « cette histoire nous rend fous, nous lâchons tout, nous perdons la tête », pour cette enfant qui fait briller pour Lacan l’éclat de cet hyméros enargès. Le dire non des femmes de la trilogie de Claudel, Sygne de Coûfontaine, Sichel, Lumîr, Pensée, la Versagung (ce défaut fait à la promesse) qu’elles mettent en œuvre témoignent de leur refus absolu de s’abandonner à l’Autre quel qu’en soit le prix à payer, de leur volonté farouche de s’affranchir de la figure du Père et de leur consentement au dérisoire du signifiant. De même le silence de la blanche Ophélie, répond de ce que Lacan appelait alors «  le drame de l’objet féminin » et se tient telle une énigme à l’écart des longs développements bavards des tribulations désirantes d’Hamlet. Mais c’est aussi Diotime qui lui apporte la dimension réelle de l’amour au moment où il en développait les dimensions imaginaire et symbolique.

Si la lecture que j’en fais dans l’ouvrage Lacan à l’école des femmes[2], leur donne une place décisive, ces figures féminines dans son œuvre auront pu être des apparitions furtives, qui à peine évoquées, s’évanouissent aussitôt là où d’autres au contraire occuperont une place importante dans son enseignement, soit parce qu’il s’y arrêtera longuement comme avec Antigone ou Lol V. Stein ou qui l’accompagneront tout au long de son séminaire comme la femme pauvre ou la dame de l’amour courtois. Cependant pour chacune d’entre elles Lacan n’aura  pas manqué de souligner l’intérêt particulier qu’il porte à ces figures de femmes qu’il « n’ose pas toucher mais dont il se fait la proie », qui « le laisse pantelant », « l’intimide » et « provoque son émoi ». « Création fascinante », il trouve avec elle « cette puissance qui nous attire dans la femme » et qui littéralement « le ravit ». Autant de citations qui nous montrent combien Lacan s’était trouvé avec elles en demeure d’avoir à répondre de l’horizon qu’elles lui ouvraient.

C’est pourquoi ces figures littéraires ne lui servent pas tant à éclairer la sexualité féminine qu’à s’avancer de manière plus précise vers un inconnu radical, vers ce qui est le paradigme de l’inaccessibilité même, dans cette proximité qu’elles ont avec l’au-delà du principe de plaisir, à voisiner avec l’entre-deux-morts. Leur proximité avec la Chose dont la nature disait-il « n’est pas si loin de celle de la femme », indique à Lacan la voie de ce qui est hors sens, et de ce qui les mène à s’affranchir des limites imposées par le phallique. Ce défaut de tout appui symbolique, cette Verwerfung qui caractérise le féminin l’introduisent à la pensée de la négativité, à l’abandon aux délices de l’ascèse et font de la mort de Dieu, du vide de la Chose, les rivages de leur continent noir.

Deux figures se retrouvent de bout en bout de son enseignement — on peut dire qu’elles ne le lâchent pas, qu’il n’a cessé de revenir vers elles — ce sont les mystiques et la dame de l’amour courtois qui accompagnent chacun des remaniements qu’il apporte à sa théorie pour cerner l’énigme de la jouissance. Déjà dans le séminaire Les psychoses Lacan pouvait souligner l’importance qu’il accordait aux mystiques dans « cette dimension nouvelle de l’expérience » qu’elles instituaient et qui a l’instar de la poésie assumait « un nouvel ordre de relations symboliques au monde ».

Il y a poésie — dit-il — chaque fois qu’un écrit nous introduit à un monde autre que le nôtre et nous donnant la présence d’un être, d’un certain rapport fondamental, le fait devenir aussi bien le nôtre. La poésie fait que nous ne pouvons pas douter de l’authenticité de l’expérience de Saint Jean de la Croix, ni de celle de Proust ou de Gérard de Nerval. La poésie est création d’un sujet assumant un nouvel ordre de relation symbolique au monde[3].

Avec cette citation on voit Lacan soutenir, une nouvelle fois encore, la valeur de vérité qu’il accorde à la fiction, pas seulement la fiction du roman familial construit dans la cure analytique, mais également la fiction littéraire, cette création ex nihilo qui une fois produite par ce « poiein » poétique, ce savoir-faire poétique élargit notre  propre rapport au monde.

Mais si en 1956 Lacan situait encore l’efficace de la poésie en lien avec un surgissement nouveau dans le symbolique, plus tard c’est dans le réel que pour lui la poésie trouvera son habitat. Ainsi dès L’éthique de la psychanalyse, Lacan souligne que les mystiques ont affaire à la Chose, ce lieu de « la Chose innommable ». C’est Marguerite Marie Alcacoque qui lui ouvre ce qu’il appelle « les portes de l’enfer intérieur », dont il ne craint pas de s’approcher. Contrairement à Freud qui reconnaissait ne rien entendre à la mystique et  écrivait à Romain Roland que celle-ci lui était aussi fermée que la musique et soulignait à quel point sa

Sophrosunè, l’amour grec de la mesure, sa modération juive et une certaine anxiété philistine l’éloignaient des questions mystiques. Mais, — ajoutait-il — il aurait dû s’y aventurer plutôt car les produits de ce sol ne devraient pas lui être étrangers mais il n’est pas si facile de franchir ses propres limites[4].

Rien de tel avec Lacan qui ne connaît pas la sophrosunè et ne s’embarrasse pas de limites et aura su ne pas se détourner de cette proximité avec l’incandescence de la Chose qui mène Marguerite Alacoque à se soumettre avec délice à la tyrannie pulsionnelle qui charrie l’exécrable. C’est dans ce choix farouche d’une servitude volontaire à laquelle elle consent que Marguerite trouve sa liberté la plus absolue, dans ce retournement de l’asservissement en liberté. Bien d’autres mystiques auront indiqué à Lacan le parti qu’elles prennent de viser l’illimité de leur jouissance, à s’affranchir de la limite phallique, à se désencombrer de Dieu. C’est ainsi que dans le séminaire Encore elles deviennent pour lui le paradigme de la jouissance Autre, de l’hétéros avec les expériences d’extase et de ravissement qui les caractérisent, cette jouissance énigmatique, dont témoignent Thérèse d’Avila, Hadewige d’Anvers, Jean de la Croix « qui éprouvent l’idée que quelque part, dit Lacan, il pourrait y avoir une jouissance qui soit au-delà ». Il leur reconnait une proximité avec ce qu’il théorise. Il ne s’agit ni de verbiage, ni de bavardage mais « toutes ces jaculations mystiques sont ce qu’on peut lire de mieux, dit-il, avec les Ecrits de Lacan, parce que c’est du même ordre »[5]. Non pas parce que Lacan se reconnaîtrait comme mystique mais parce que ce qu’il vise, et sans doute depuis toujours, c’est d’approcher avec ses outils théoriques, du réel d’une jouissance qui s’éprouve mais dont on ne peut rien dire.

La deuxième figure qui l’accompagne au fil de son séminaire est la dame de l’amour courtois, cette expérience historique qu’aura été la fin amor, cet art poétique par lequel « l’objet aimé est élevé à la dignité de la Chose », « objet affolant, » « tout en cruauté ». Comme il le dira, son séminaire sur L’Ethique n’aurait pu se faire sans Marguerite de Navarre dont il aura tenu serrée la main. C’est d’elle et non de Platon ou d’aucun érudit qu’il tient ce qu’il a appris de l’amour et de la femme. De  même qu’avec Marguerite Duras, Lacan trouve avec l’auteure de L’Heptameron de quoi approcher de ce vérisme qu’elle déplie dans ses nouvelles sur  ce « décharité » dont elle témoigne, sur cette scolastique de l’amour malheureux tributaire de cet irréductible non-rapport qu’ourdit le sexuel chez le parlêtre et sur cette figure inaccessible que représente le féminin.

A la manière de Lévi-Strauss, Lacan nous donne de la dame les invariants structuraux qui la caractérisent. Lointaine, hors d’atteinte, non individualisée, vidée de toute substance réelle, cruelle et inhumaine, elle est pour lui cet objet affolant du fait de son inaccessibilité même. Autant d’invariants qui font de la dame l’emblème du féminin et anticipe d’une certaine manière ce qu’il dira de la femme en tant qu’elle n’existe pas. Mais, par-delà la figure de la dame, cette expérience de l’amour courtois lui indique ce qui est visé dans ce courtisement de la fin amor, à savoir l’amour lui-même, un amour qui ne vise aucun objet de satisfaction. Cette position n’est pas sans résonance avec l’hérésie cathare à laquelle Lacan fait allusion, pour qui il s’agissait en visant la perfection « d’atteindre la mort dans l’état du détachement le plus avancé ». Aussi l’amour courtois côtoie-t-il ce que Lacan désigne dans L’éthique de la psychanalyse comme l’entre-deux-morts. Mais quand il revisite dans Encore ce qu’il avait dit concernant l’amour courtois, c’est plutôt à sa dimension de semblant qu’il est alors sensible. Il souligne cette fois la ruse, la manœuvre, la feinte qu’il voit à l’œuvre, grâce à quoi cet art, cette œuvre de sublimation vient suppléer à ce qui pour lui, est désormais acquis, théoriquement acquis, le non rapport sexuel. Lacan dénonce alors la ruse poétique en saisissant par la logique l’obstacle de structure et non simplement fomenté par le sujet, qui est inhérent au parlêtre, pour qui « la jouissance de l’autre pris comme corps est toujours inadéquate ».

Mais avant cela il aura appris de ces figures féminines le vibrant appel à l’amour auquel elles sont suspendues, parfois jusqu’à la folie, du fait de l’étrangeté de cette jouissance Autre qui les divise. Figures sublimes ou figures du ravage elles portent tour à tour le flambeau de passions obscures. Elles laissent entrevoir à Lacan le moyen au sens de Madame Guyon que représente l’amour pour parer à cet irréductible du non rapport, un pur amour, qui n’attend aucun salut ou à l’inverse l’égarement affolant lorsque l’amour leur fait défaut, l’exigence incendiaire d’être aimées. Lacan saura  de l’amour reconnaître toutes les variétés.

La première d’entre elles à avoir élargi l’horizon de l’amour au-delà de sa seule dimension narcissique c’est Diotime. Dans sa lecture du Banquet de Platon, qui lui sert à préciser la question de l’amour du transfert, Lacan s’attarde sur le discours de Diotime et sur l’étonnement qu’il y a à trouver dans un dialogue de Platon une telle place faite à une femme. Comme il le souligne, Socrate, au moment où il doit prendre la parole et à son tour faire l’éloge de l’amour, lui si  savant, lui qui toujours a réponse à tout, s’efface et laisse parler Diotime, pourquoi pas comme le dit Lacan laisse parler la femme qui est en lui. Diotime apporte à Lacan deux choses qui seront déterminantes pour lui, d’une part la formule canonique qu’il donnera de l’amour et d’autre part l’invention de la figure de la femme pauvre si décisive pour lui.

Socrate sait que l’amour ne saurait se saisir par les seules lois socratiques du langage, les lois de la dialectique, les lois du signifiant. Or Diotime, la magicienne, la sorcière peut-elle s’émanciper de la loi du signifiant. Là est la leçon que Lacan apprend de Diotime. Diotime, qui  disserte sur l’amour du beau (car chez les Grecs amour et beau sont associés) introduit une logique qui anticipe celle du pas-tout lacanien en disant que ce qui n’est pas beau ne saurait être laid. Elle introduit quelque chose qui tient d’une logique qui n’est pas celle d’un tout l’un ou tout l’autre mais quelque chose qui est entre, entre savoir et ignorance, entre épistémè et amathia, quelque chose qui est vrai sans que pour autant on puisse, avec les lois du langage, en donner la formule.

En reprenant la traduction du Banquet de Platon, en se tenant au plus près du texte, Lacan trouve dans le discours de Diotime de quoi rompre avec la méthode du oui ou non, de la présence ou absence propre à la loi du signifiant. Pour elle il y a un intermédiaire entre savoir et ignorance, une opinion vraie sans que l’on puisse en donner la justification, la formule. Donner la formule sans l’avoir, telle est l’expression dont Lacan s’empare pour écrire la maxime oxymorique de l’amour, donner ce qu’on n’a pas. En s’émancipant de la loi du signifiant, Diotime offre à Lacan l’oxymore comme voie poétique pour atteindre le réel. Car l’amour a trait au réel. C’est quelque chose qui nous tombe dessus, on n’est pas sujet de l’amour, on en est victime, dit Lacan.

Parler d’amour suppose de rester dans cette zone de la métaxu, de l’intermédiaire entre savoir et vérité, entre désir et jouissance dont seul le mythe (le mythe en tant qu’il « se rapporte à l’inexplicable du réel ») peut approcher. C’est pourquoi Lacan (qui lui aussi va à cette occasion inventer son propre mythe de l’amour, celui de la main qui s’enflamme) s’intéresse à l’invention que fait Diotime du mythe de la naissance d’Eros, le Dieu de l’amour. Mythe inédit qui n’appartient pas aux mythes traditionnels. Dans ce mythe l’amour est un intermédiaire, ni dieu ni homme il est un « daimon », un démon né du Dieu Poros et d’une femme, Pénia. S’il tient de son père la ruse, il est fils de la Pauvreté, celle qui est sans ressource. Penia retient toute l’attention de Lacan et n’est pas sans lui rappeler cette autre femme sur laquelle il reviendra souvent, la femme pauvre du roman éponyme de Léon Bloy, la femme dépouillée de tout, dans le ravissement du renoncement à tout objet. C’est là encore un des emblèmes du féminin qui n’a rien à donner que ce manque absolu qui la constitue. La femme pour Lacan sera partagée entre deux figures fondamentales de la féminité, la porteuse de bijoux corrélative à sa part phallique, dans laquelle joue un rôle si éminent la mascarade et la femme pauvre, étrangère à elle-même, qui s’offre à une jouissance énigmatique, hors langage. Léon Bloy écrira à propos de Clotilde, l’héroïne de son  roman : « silencieuse comme les espaces du ciel, elle a l’air, quand elle parle, de revenir d’un moment bienheureux situé dans un monde inconnu ». Lacan trouve avec cet auteur, à l’instar du très catholique Claudel, la figure qu’il entend donner à l’inconnaissable du féminin.

Ces figures littéraires de femmes, trop rapidement ici esquissées, apportent à Lacan les fils d’un ternaire jouissance / amour / femme qu’il noue à la question du réel dont il a fait son symptôme.

Car si ces femmes ont à ce point retenu son attention, tout au long de son élaboration théorique, c’est qu’elles sont partie prenante d’une question déjà engagée par Lacan à ses débuts, ses débuts d’apprenti psychiatre avec sa patiente Aimée et il nous donne à lire avec Lol V. Stein le ravissement dont il procède lui-même.

Mais l’Aimée que je voudrais évoquer ici n’est pas tant Marguerite Pantaine elle-même que Aimée, l’héroïne de son roman. En attribuant à Marguerite le prénom Aimée pour en faire l’objet de sa thèse, élevant celle-ci à la dignité d’objet d’amour, Lacan inaugure un tressage particulier où la patiente se confond avec la lettre de son texte en une sorte de mise en abîme où l’Aimée du premier roman rencontre Jaime premier du deuxième, forme subjective et objective du verbe aimer, dans cette folie d’amour qui mène la danse et entraîne Lacan dans son tourbillon. Marguerite n’est pas seulement la patiente psychotique que l’on sait, elle est aussi l’écrivain qu’il souhaite faire publier et pour laquelle il mobilise ses amis (Crevel, Éluard…). Il est comme il le dit sensible à « la signification brûlante de ses productions écrites », de « cette amoureuse des mots qu’elle choisit pour leur valeur sonore et suggestive ». Lacan déjà se désencombrait du sens pour s’intéresser à la résonance de la langue qui s’y fait entendre. Aimée est la première à l’avoir introduit à une version de l’amour qui est sans limite, dans cet sorte d’apostolat auquel elle se voue dans cette expansion du Moi où la mène l’illimité de sa jouissance.

Mais cet amour torrentiel d’Aimée n’est pas sans faire écho au poème « Panta rei (ou ruei) », publié sous le titre Hiatus irrationnalis[6] dans lequel l’auteur se reconnaît être lui-même sous le feu qui le fait pour la femme à qui ce poème est destiné « son immortel amant ». M. T. H. qui est aussi celle à qui il a dédicacé sa thèse. Hiatus nomme cette béance qui s’opère entre le « démon pensant » et le feu de l’amour, une béance que creuse la forme donnée au sonnet dans ces tours et retournements dont use la figure du chiasme utilisée pour croiser et décroiser les fils de ce qui reste à tout jamais inaccessible à la raison. Le poème Hiatus irrationalis est la première écriture que l’amoureux Lacan aura donné du réel dont il fera sa cause.

Dans son « Hommage fait à Marguerite Duras du ravissement de Lol V. Stein »[7], Lacan reprend à son compte le vocabulaire de la fin amor et à l’image du poète courtois fait à la dame Duras, à moins que cela soit à Lol V. Stein elle-même, un hommage sur le ravissement dont il est lui-même l’objet. Dans la forme qu’il donne à ce titre, Lacan est partie prenante de ce premier ternaire Lacan / Dura s/ Lol où s’entrelacent ravi, ravisseuse et ravissement. On le sait les ternaires sont nombreux dans ce texte : Lol / Anne-Marie Stretter / Michael Richardson, Lol / Tatiana / Jacques Hold, Duras / Marguerite de Navarre / L’amour, de même que Lol / L’amour / Lacan jusqu’à l’écriture du nom Lol V. Stein. Lacan a trouvé dans l’écriture de Marguerite Duras « cet être à trois » ici mis en abîme duquel il ne s’exclut pas. Lol est la ravisseuse, « cette figure de blessée, exilée des choses qu’on n’ose pas toucher mais qui vous fait sa proie. » De même qu’Antigone, son éclat, l’hyméros énargès qui s’en dégage suscite l’émoi et intimide Lacan, Lol enserre Lacan dans son nœud et une topologie inédite s’inaugure lorsqu’il met ses pas dans ceux de Lol.

Mon évocation de La Gradiva trouve avec Lacan un autre destin. Contrairement à Freud, Lacan ne fait pas que mettre ses pas dans ceux de Lol, le pas du sens pourrait-on dire, il effectue un retournement :

Si à presser nos pas sur les pas de Lol, dont son roman résonne, nous les entendons derrière nous sans avoir rencontré personne, est-ce donc qu’elle se déplace dans un espace dédoublé ? Ou bien que l’un de nous a passé au travers de l’autre, et qui d’elle ou de nous alors s’est-il laissé traverser ?[8]

Retournement qui opère une traversée dans un autre espace qui concerne Lol tout autant que Lacan qui ne s’en exclut pas. Reprenant un procédé d’écriture de Duras qui brouille les limites de l’intérieur et de l’extérieur du récit, Lacan se trouve inclus dans le commentaire qu’il fait et laisse entendre la part qu’il prend à ce qui se joue pour lui avec Lol, Duras et Marguerite de Navarre. Lacan se fait ravir par Lol, et écrit avec elle, pour elle à qui il s’adresse dans son hommage, le ravissement qui est le sien, le leur, celui qui fait résonner le trou du sens, là où le mot manque, le mot trou. « Ce mot trou creusé en son centre d’un trou, de ce trou où tous les autres mots auraient été enterrés. »[9] Le mot-trou apporté par Duras qu’elle réalise dans son écriture par la succession d’ellipses, de phrases interrompues, de points vient écrire pour Lacan ces noces taciturnes du vide de la vie avec l’objet  indescriptible. « On n’aurait pas pu le dire, écrit Duras, mais on aurait pu le faire résonner. »[10] . C’est à cette résonance que Lacan s’emploie.

[1] J. LACAN, Le Séminaire. Le Transfert, séance du 17 mai 1961, éditions de l’Association Lacanienne Internationale.

[2] M. PESENTI-IRRMANN, Lacan à l’école des femmes, Paris, ERES, 2017, 280 p.

[3] J. LACAN, Le Séminaire. Les psychoses, séance du 11 janvier 1956, éditions de l’Association Lacanienne Internationale.

[4] S. FREUD, Correspondance, Paris, Gallimard, 1976.

[5] J. LACAN, Le Séminaire Encore, séance du 20 février 1973, éditions de l’Association Lacanienne Internationale.

[6] J. LACAN, « Hiatus irrationnalis », Phare de Neuilly, 1929, n°3/4.

[7] J. LACAN, « Hommage fait à Marguerite Duras du ravissement de Lol. V. Stein », Autres Ecrits, Paris, Le Seuil, 2001.

[8] Ibidem.

[9] M. DURAS, Le ravissement de Lol. V. Stein, Paris, Gallimard, 1976.

[10] Ibidem.


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EDGAR ALLAN POE ET LACAN – Alain VANIER

 

Lacan aura donné à La lettre volée (The Purloined Letter) d’Edgar Poe une place incomparable dans son enseignement :

Nous enseignons que l’inconscient, c’est que l’homme soit habité par le signifiant, comment en trouver une image plus belle que celle que Poe forge lui-même pour nous faire comprendre l’exploit de Dupin ?[1]

Rappelons d’abord que le choix de ce texte d’Edgar Poe ne s’est sans doute pas fait au hasard. En effet, d’une part, Marie Bonaparte a publié un livre sur Poe, préfacé par Freud, Marie Bonaparte qui, semble-t-il, n’aimait pas Lacan et dont l’influence ne fut pas négligeable dans la récente scission en 1953 ; d’autre part, le jeu du pair et de l’impair qui figure dans la nouvelle est ce qui va en premier lieu accrocher Lacan en Mars 1955, il renvoie au modèle de la cybernétique qui l’intéresse à cette époque.

Cette nouvelle est l’émergence — déjà dans Double assassinat dans la rue Morgue paru trois ans plus tôt — de la figure du détective, jusque-là inédite en Occident, sous les traits du chevalier Auguste Dupin. Elle annonce Sherlock Holmes comme le signale Lacan, mais aussi le roman policier moderne, le roman noir américain, celui de Dashiell Hammett ou de Raymond Chandler.

La nouvelle commence par une citation de Sénèque et les références culturelles sont très nombreuses, une « parade d’érudition » pour mieux nous égarer, car paradoxalement la nouvelle commence par une apologie de la simplicité[2]. Voici la citation de Sénèque que, semble-t-il, personne n’a retrouvée dans son œuvre : « Nil sapientiæ odiosius acumine nimio », — rien n’est plus détestable pour la sagesse que trop de subtilités.

Le narrateur, un ami d’Auguste Dupin à Paris, est présent quand Dupin reçoit la visite du préfet de police de Paris M. G… qui vient consulter. Un document — une lettre — a été soustraite à la Reine, une lettre compromettante qu’elle a reçue. Pendant qu’elle la lit, le Roi entre, elle la pose retournée sur une table. Arrive alors D…, le ministre — on notera qu’il s’agit de la même initiale que Dupin —, qui saisit aussitôt l’enjeu de la lettre car il reconnaît l’écriture et le cachet, il n’en connaît pas le contenu, mais il en situe les marques. D… subtilise la lettre au vu de la Reine en mettant une autre lettre quelconque à la place, mais elle ne peut rien dire. Le voleur sait que la personne volée connaît son voleur. En fait, souligne le narrateur, c’est la possession et non l’usage de la lettre qui crée l’ascendant du ministre sur la Reine : s’il en use, l’ascendant s’évanouit. Le préfet fait alors fouiller la maison du ministre par la police — méticuleusement —, les policiers sondent les chaises, les tapis, etc. mais ne trouvent rien. En fait, les policiers sont piégés par la signification, une lettre aussi importante ne peut être visible. Le ministre lui-même est arrêté et fouillé par de faux voleurs. La police erre par trop de profondeur, dit Dupin, qui a fait l’apologie de la simplicité au début de la nouvelle. Un mois plus tard, le préfet revient ; malgré une grosse récompense, il n’y a rien. Dupin dit : « Vous pourriez prendre conseil » et cite l’histoire du docteur Abernethy, chirurgien, inventeur de célèbres biscuits, à qui, quelqu’un, soi-disant à propos d’un tiers, essaya de soutirer gratuitement diagnostic et traitement :

— Que lui conseillerez-vous de prendre ?

— Je lui conseille de prendre conseil.

Le préfet décontenancé paie Dupin qui lui donne la lettre. Pour expliquer sa trouvaille, l’aveuglement de la police, il évoque un enfant de huit ans gagnant infailliblement au jeu de pair et impair (le jeu consiste à mettre dans une main un nombre pair ou impair de billes, le protagoniste devant deviner si le nombre est pair ou impair). La technique de cet enfant est de déduire sur un mode divinatoire la pensée de l’autre, la méthode tient à une identification de l’intellect du raisonneur avec celui de son adversaire. « Je compose mon visage d’après le sien et j’attends de savoir quelles pensées viennent à mon esprit ou mon cœur. » Là vient une série d’évocations de La Rochefoucauld, de Machiavel, pour nous leurrer, dit Lacan, comme un prestidigitateur. La police a fouillé en partant de ce qu’ils supposent que quiconque aurait fait pour cacher la lettre. La police pense qu’il est fou car poète, mais il est aussi et surtout mathématicien, dit Dupin, il est poète et mathématicien, et c’est ce qui retient Lacan. De là une critique de la raison mathématique, que critiquera Lacan. Donc le tenant pour poète et mathématicien, Dupin pense autrement, il s’identifie au ministre et pense comme il aurait pensé, agissant comme le garçon de huit ans. Il va chez le ministre et le trouve alors alangui, ce qui contraste avec ce qu’on sait de lui, un homme très énergique. La lettre est à la vue de tous, « sur un misérable porte-cartes, orné de clinquant, et suspendu par un ruban bleu crasseux à un petit bouton de cuivre au-dessus du manteau de la cheminée ». En anglais : « just beneath the middle of the mantelpiece ». Beneath veut dire « au-dessous » et non « au-dessus ». Lacan va faire un pas, qui évoque celui de son commentaire des Ménines, un forçage de traduction, « suspendu entre les jambes de la cheminée ». Dupin revient le lendemain, il a payé quelqu’un pour tirer un coup de feu dans la rue : le ministre va à la fenêtre, et Dupin subtilise la lettre. Maintenant c’est la Reine qui tient le ministre en son pouvoir puisqu’il ignore que la lettre n’est plus chez lui. Ce renversement va provoquer la dégringolade annoncée du ministre. « Je n’ai pas aucune sympathie, pas même de pitié » pour le ministre, dira Dupin. À la place, il a laissé une lettre où sont écrits ces vers de Crébillon (en français) :

« Un destin si funeste

S’il n’est digne d’Atrée, est digne de Thyeste. »

Rappelons simplement qu’Atrée fait boire à son frère Thyeste le sang de l’enfant Plisthène qu’il a eu avec la femme d’Atrée.

Lacan va consacrer trois séances du séminaire sur Le Moi, son deuxième séminaire, à La Lettre volée, puis il va réécrire l’année suivante à partir de ces séances un texte qui sera publié en 1957, puis, une dizaine d’années plus tard, une deuxième publication remaniée dans les Écrits. La première évocation a donc lieu le 23 mars 1955 où Lacan commence par évoquer un Réel ultime au-delà du rapport intersubjectif, un dissemblable essentiel au-delà de l’image qui se manifeste par un quod ultime, un qu’est-ce que c’est ? Si la lettre volée sert à montrer l’autonomie du symbolique, la première séance ouvre à un au-delà, et témoigne déjà d’un certain embarras avec l’intersubjectivité. Et dans cette première séance, dans ce premier abord du conte, il retient surtout le jeu de pair et impair, et il essaie de faire jouer le temps logique mais ne parvient pas à installer le troisième temps.

Premier temps : je suppose l’autre sujet dans la même position que moi. Deuxième temps : le sujet se fait autre et se met en tiers pour sortir du reflet, dès lors l’autre me trompe ou peut me tromper. Mais le troisième temps le fait revenir au premier. Il veut démontrer contre Poe que l’intersubjectivité imaginaire ne peut être la solution, il cherche une voie logicisable. Il essaie en formalisant, et on le sait très occupé à cette époque par les recherches de la cybernétique. Il imagine jouer avec une machine mais ça ne marche pas, sauf peut-être si la machine a un appareil de mémoire, est capable de remémoration qu’il différencie de la mémoire à ce moment-là, car la remémoration implique l’après-coup. Il passe alors à l’histoire du conte qu’il évoque très brièvement. Ces deux temps sont juxtaposés dans la démarche de Lacan pour articuler autrement l’automatisme de répétition comme lié strictement à la chaîne signifiante, et ces deux temps vont se maintenir tout le long de son approche de La Lettre volée.

Une séance suivante, le 30 mars, il fait jouer le séminaire. Il fait jouer en particulier Octave Mannoni et Pierre David, au jeu du pair et impair. Puis il y a les vacances et le 26 avril, un mois plus tard, il revient sur La lettre volée proprement dit, cette fois-ci sur l’ensemble de l’histoire. L’analyse du texte est d’une virtuosité étonnante, mais pas sans certains forçages. Je ne vais pas suivre le texte dans toutes les étapes car entre mai et août 1956, soit un an plus tard, Lacan réécrit ces séances et les publie dans La Psychanalyse en 1957.

Il s’agit d’un texte en deux étapes, d’une part une introduction où est repris le jeu du pair et de l’impair, mais cette fois-ci avec un système de groupement des signes pairs et impairs, eux-mêmes regroupés : dès lors apparaissent des lois de composition.

Pair/impair = + – + + – – + + + – – +

Et les regroupe ainsi :

1 = (+ + +, – – -) symétrie constance

3 = (+ – +, – + -) symétrie alternance

2  = (+ – -, – + +, + + -, – – +) dissymétrie

À un autre niveau encore, il regroupe les suites symétriques [(1)-(1) ; (3)-(3) ; (1)-(3) ; (3)-(1)] = a ; celles de dissymétrie à dissymétrie [(2)-(2)] = g ; et les dispositions croisées = b, d

Lacan dira plus tard avoir voulu montrer l’autonomie de la chaîne signifiante par cette succession au hasard d’une alternance binaire + – mais c’est en produisant des groupes triples d’un niveau supérieur avec de l’un à l’autre un vide que ça devient possible. Il y a un effet d’opacification qui peut être considéré comme représentant le refoulement ou le retour du refoulé. C’est le signifiant, mais surtout le signe qui resurgit au-delà du signifiant (qu’on pense au pied de la Gradiva). Il y a donc une opacification de la détermination symbolique. Le trognon + – renvoie au fait que dans la langue il n’y a que des différences ; c’est aussi le fort-da, le battement dans le cas de paranoïa féminine dont parle Freud, etc. Mais il révèle une structure qui montre le lien de la mémoire au sens, de la remémoration à la loi, car apparaissent ainsi des lois, des successions possibles et impossibles. Ainsi, l’homme ne constitue pas le symbole mais il est constitué par lui.

Lacan propose alors de distinguer la projection, qui relève de la relation duelle, de l’intersubjectivité qui implique le signifiant sur laquelle il reviendra plus tard à cause du transfert[3]. C’est pourquoi le jeu pair/impair n’est finalement qu’un leurre de Dupin. Il y a une loi qui préside au coup joué par chaque joueur au-delà de la relation duelle. Il reprend alors l’exemple de O. Mannoni lors de la séance de jeu qui à un moment donné avait pris l’ordre des vers d’un poème de Mallarmé pour jouer. Pour Lacan, si le jeu dure le temps d’un poème, alors l’adversaire aurait gagné : il n’y a pas de hasard.

Après cette introduction vient le développement sur le récit. On notera que lors de sa reprise dans les Écrits, l’ordre est inversé. Cette deuxième partie précède l’introduction sur la combinatoire bien que toujours dénommée « introduction », séparée par une « présentation de la suite » et augmentée d’une « parenthèse des parenthèses » de 1966 qui tente encore, et réussit à articuler les deux pans de son entreprise qui tourne autour de ce qui n’est pas nommé jusque-là mais sur quoi il bute et dont il livre le nom dans l’introduction des Écrits, soit le déchiffrement dans :

La fiction de Poe, si puissante, au sens mathématique du terme, [de] cette division où le sujet se vérifie de ce qu’un objet le traverse sans qu’ils se pénètrent en rien, laquelle est au principe de ce qui se lève à la fin de ce recueil sous le nom d’objet a (à lire : petit a[4].

On pourrait ainsi nommer l’approche de La Lettre volée une voie de l’objet a, le point d’articulation de l’objet et de la lettre. Cette phrase extraite de l’Ouverture de ce recueil qui précède Le séminaire sur « La Lettre volée » dans les Écrits est au fond une conclusion de toute l’entreprise de Lacan avec ce texte ; après 1966 il n’y reviendra qu’à deux reprises fin 1969 dans la postface à l’édition de poche des Écrits, puis en 1971 dans la leçon du séminaire précédant Lituraterre, pour insister sur la lettre comme objet — l’épistole — et sa dimension féminisante qu’il identifiera à La Femme en tant que lettre qui n’est pas dans l’Autre.

Mais dans les Écrits, l’accent est mis sur cet objet pas encore inventé lors de l’écriture de ce séminaire, que toutes les reprises successives depuis 1955 dessinent en creux. Ainsi, Lacan insiste déjà dans son texte pour la revue La Psychanalyse sur la notion de reste. Le reste, soit la lettre en tant qu’objet laissée par le ministre ou celle de Dupin qui contient les vers de Crébillon. De même, il évoque l’équivoque de Joyce, a letter, a litter, une lettre, un déchet, pour illustrer son inversion du proverbe « les paroles volent, les écrits restent ». En effet, les paroles restent, paroles reçues, lestées, écrit-il, par une dette ineffaçable, mais la lettre vole, « les écrits empruntent au vent les traites en blanc d’une cavalerie folle ». Lacan suivant les mouvements associe ou dissocie lettre et signifiant, la lettre comme insécable, trait différentiel de l’ordre du trait unaire. Ça n’est pas encore la lettre de Lituraterre, mais pourtant, le lien à la jouissance non nommée, à l’imaginaire et au réel s’y trouve bien.

On notera que son analyse de la nouvelle est tout à fait structuraliste, à la différence du séminaire sur Joyce, aucune référence à la biographie de Poe, et pourtant il y aurait eu beaucoup à dire, une analyse structuraliste, contre Sainte-Beuve. Il réduit donc tout le récit à deux scènes : une scène qu’il nomme primitive et ses répétitions qui sont, d’une certaine façon, parallèles aux développements sur le jeu du pair et de l’impair. On peut aussi saisir ce développement sous un autre angle : une première scène, le vol de la lettre, qui contient trois protagonistes, le Roi et la Reine — notons que le couple royal est pour Lacan le symbole du pacte majeur, médiateur entre ce que nous ne connaissons pas et l’ordre social, or la lettre menace le pacte — et un troisième protagoniste, le ministre D… Puis une deuxième scène avec encore trois protagonistes : la police, le ministre et Dupin. Et là, Lacan fait fonctionner un temps logique sur lequel il avait buté un an plus tôt, trois temps logiques, trois places. Un premier temps, celui d’un regard qui ne voit rien : celui du Roi dans la première scène, de la police dans la deuxième scène ; un deuxième temps, celui d’un regard qui voit que le premier ne voit rien et se leurre d’en voir couvert ce qu’il cache, c’est le cas de la Reine, puis du ministre ; enfin un troisième temps qui est celui où il voit ce qu’ils laissent ce qui est à cacher à découvert, le ministre, puis Dupin.

Tous les déplacements des sujets sont déterminés par la place que vient occuper la lettre volée, lettre volée que Lacan nomme pur signifiant, qui renvoie à la singularité du signifiant. C’est la traduction de odd comme signifiant pur. L’articulation à la chaîne n’est pas évidente, il la situe parfois hors de la chaîne, affectant le sujet. Ainsi quand le ministre vient à la place de la Reine dans la deuxième scène, il est alangui, il est dans une position féminine, souligne Lacan, chacun est dans ce jeu de places défini jusque dans son attitude sexuelle : par quoi ? Par le fait que la lettre est liée à La Femme, par le fait qu’une lettre arrive toujours à destination puisque selon l’adage que lui a proposé Claude Lévi-Strauss, l’émetteur reçoit du récepteur son propre message sous une forme inversée. D’où la récurrence du schéma L dans les publications successives du séminaire sur La Lettre volée.

Mais cette féminisation est l’effet d’un signe, et non d’un signifiant, le signe de la femme, écrit Lacan.

Ici le signe et l’être merveilleusement disjoints, nous montrent lequel l’emporte quand ils s’opposent. L’homme assez homme pour braver jusqu’au mépris l’ire redoutée de la femme, subit jusqu’à la métamorphose la malédiction du signe dont il l’a dépossédée.[5]

C’est pourquoi le ministre se féminise de posséder la lettre car ce signe de La Femme se fonde hors de la loi, et c’est ce signe qui le possède, la lettre, elle le possède littéralement. Cette lettre est le signifiant et au-delà du signifiant, puisque Lacan l’a évoquée tout au début dans le séminaire sans y revenir sous la forme de la Triméthylamine, cette formule qui apparaît dans le rêve de l’injection faite à Irma quand les mots, les identifications se dissipent, quand ce qui se voit ne peut plus être nommé, n’est plus figurable. Ce que cette dimension fait apparaître est le lien de la lettre à une jouissance, ce que l’écriture du discours du Maître, plus tard, montrera comme lien du S1 au plus-de-jouir. Cette lettre n’est opérante que parce qu’elle est cachée, ou plutôt en souffrance comme Lacan invite à traduire purloined, au prix d’acrobaties et d’arguments étymologiques à la façon de Heidegger plus ou moins convaincants. Car purloined veut bien dire dérobé. Cette lettre qui se trouve à la deuxième scène beneath — en dessous — entre les jambes de la cheminée, interprète Lacan. On saisit les linéaments de ce qui sera développé dans la suite de l’enseignement.

Tout comme cette articulation vérité/réel. La police croit au réel, donc ne trouve rien, car dans le réel rien n’est caché. Mais le réel à ce moment-là est seulement ce qui est en deçà du symbolique. Mais tout ce qu’il dira sur la Reine, sur la féminisation, est déjà dans ce registre-là, même si dans certaines formules le Réel semble proche de la réalité. En effet, ne peut être caché en fait que ce qui est de l’ordre de la vérité ; c’est ce qui fait la puissance de la lettre dérobée, mais parce qu’elle relève de la vérité, elle cloue le bec de celui qui la possède : c’est le refoulement, il l’incarne sans la dire.

Lacan compare Dupin au héros moderne, celui qui accomplit « des exploits dérisoires dans une situation d’égarement ». C’est le héros du temps de la montée progressive de la raison raisonnante, de la raison moderne, du discours universitaire, car en effet le récit croule sous les citations savantes et les noms d’auteur. Mais il est aussi le détective amateur, un nouveau matamore. Or, ce détective moderne, comme le montrera encore plus nettement le roman noir américain, est pris aux rets de son désir où le convoque l’énigme, pris aux rets d’un désir de savoir qui l’apparenterait à l’analyste. Lacan n’hésite pas : Dupin est comme l’analyste car il se fait payer. Il faut racheter pour éviter la dette, pour traiter la dette, pour se retirer du circuit symbolique de la lettre car nous, les analystes, nous nous faisons « les émissaires de toutes les lettres volées qui, pour un temps au moins, seront chez nous en souffrance dans le transfert ». Mais voilà, il y a quelque chose de plus chez Dupin. Il est devenu parti prenante du jeu en venant à la place occupée successivement par la Reine, puis par le ministre. En effet, il a un compte à régler avec celui-ci, il est pris, dit Lacan, d’une rage féminine, d’une passion, manifeste dans la lettre qu’il a laissée et qui conduira le ministre à sa ruine quand il voudra s’en servir contre la reine, il a laissé les vers de Crébillon — puisqu’il évoque un mauvais coup que lui aurait fait le ministre. Les vers cités évoquent quelque chose d’horrible ; or cette vengeance d’Atrée contre son frère va dans le sens de l’hypothèse de Jean-Claude Milner : Dupin et D…, le ministre, seraient frères, témoin l’initiale commune ou l’évocation des frères Atrée et Thyeste. Les lettres — D et D — dictent le destin, comme dans une psychanalyse : un amour aveugle ou une haine lucide. Le contenu reste inconnu, une lettre d’(a)mur ? Mais quand la lettre arrive à destination, s’il sait la lire, « il se lèvera de la table à temps pour éviter la honte ».

Un dernier mot, plus général, sur l’objet de notre rencontre l’usage de la littérature par Lacan, un dernier mot — les siens d’ailleurs — à propos de Poe et plus généralement de l’œuvre littéraire[6].

Dans un entretien de 1966, à l’occasion de la parution des Écrits, Lacan évoque la nouvelle de Poe. Il aura jugé pertinent de reprendre quasiment mot pour mot en 1977 cette intervention. Dans ces deux textes à onze ans d’écart, il écrit :

L’œuvre littéraire réussit ou échoue, mais ce n’est pas imiter les effets de la structure. Elle n’existe que dans la courbure qui est celle même de la structure. Ce n’est pas une analogie, la courbure en question n’est pas plus une métaphore de la structure que la structure n’est la métaphore de la réalité de l’inconscient. Elle en est le réel, et c’est en ce sens que l’œuvre n’imite rien. Elle est, en tant que fiction, structure véridique. (…) Éclairons-nous de ce que j’y articule de l’effet qu’une lettre doit à son seul trajet de faire virer à son ombre la figure même de son détenteur. Ceci sans que personne, peut-on dire, n’ait l’idée de ce qu’elle enveloppe de sens puisque personne ne s’en soucie.[7]

L’œuvre d’art n’est pas mimésis, souvenons-nous de la métaphore de Zeuxis et Parrhasios évoquée par Lacan. De même ce que manifeste le théâtre, une œuvre cache et montre, elle n’imite pas, elle est structure véridique. Si l’artiste vise au-delà du sens, l’analyste aussi. C’est ce que manifeste l’évocation de la courbure qui est une référence à la structure elle-même, mais aussi à la courbure de l’espace puisque Lacan y fait allusion. L’espace n’est pas tel que nous nous le représentons, c’est-à-dire comme le stade du miroir l’agence pour nous, car le miroir plan efface aussi bien la courbure du miroir sphérique du schéma optique, « forme généralisée du stade du miroir », que la courbure de l’espace que montre « la rectification einsteinienne », courbure qui affecte même la lumière alors que nous croyons à la rectitude des rayons lumineux. L’œuvre littéraire, l’écriture touche à ce réel, à ce qu’articule le parcours de Lacan avec La Lettre volée, l’objet a, le signe et la lettre.

[1] J. LACAN, Écrits, Paris, Le Seuil, 1966, p. 55.

[2] E. A. POE, « La Lettre volée » (1844), Œuvres en prose, trad. C. Baudelaire, Paris, Gallimard, coll. Bibliothèque de la Pléiade, 1951, p. 45-64.

[3] Ces deux propositions successives sur l’intersubjectivité et sa possibilité ne s’excluent pas l’une l’autre. En effet, à un premier niveau, il n’existe pas d’intersubjectivité, le sujet recevant de l’Autre son propre message sous une forme inversée, il constitue l’Autre avec les reliquats de ses propres agencements infantiles avec les affects qui les accompagnent. Mais justement, les affects, sur un autre plan renvoient à une logique du signe et non plus du signifiant (cf. ma supposition de sujet : « D’une dyade à plusieurs. Quelques remarques à propos d’un travail avec des mères psychotiques et leur nourrisson », Psychologie clinique, n 12, 2001/2, Paris, 2002 ; « Inconscient et narrativité », dans (dir. C. CLOUARD, B. GOLSE, A. VANIER), La narrativité. Racines, enjeux et ouvertures, Paris, Éd. In Press, coll. Ouvertures Psy, 2017, p. 21-39; « Reading Winnicott with Lacan », Journal of the Center for Freudian Analysis and Research, n° 28, Londres, TJ International, 2018 ; etc.). L’intersubjectivité renvoie alors à la manière dont dès le départ le sujet constitue l’Autre comme sujet, ce qu’il ne cessera de faire pour le faire exister via de multiples sacrifices.

[4] J. LACAN, Écrits, ibid., p. 10.

[5] J. LACAN, Écrits, ibid., p. 31.

[6] Il y a, en effet, un intérêt de la littérature pour l’analyste, non seulement pour sa formation comme l’indiquait Freud, mais aussi parce que la psychanalyse poursuit « le débat des Lumières », soit un travail sur ce que les Lumières produisent comme ombre. On trouve des aperçus saisissants chez les premiers romantiques, cf. A. VANIER, « Novalis, l’écriture et le nom », dans (dir. F. SAYER) La littérature et le divan, Paris, Hermann, 2011.

[7] J. LACAN, « Interview de Jacques Lacan à la RTB III », 14/12/1966, Quarto, n° 7, 1982 ; et « Préface » à l’ouvrage de Robert GEORGIN, Lacan, Cahiers Cistre n°3, Lausanne, L’Âge d’homme, 1977.