L’ANTROPOLOGIA PSICOANALITICA IN FREUD TRA “ORIGINE DEL MITO” E “MITO DELL’ORIGINE” – Vincenzo RAPONE

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L’ANTROPOLOGIA PSICOANALITICA IN FREUD TRA “ORIGINE DEL MITO” E “MITO DELL’ORIGINE” – Vincenzo RAPONE

1) Psicoanalisi e soggetto della scienza

Definire il campo psicoanalitico rispetto al discorso della scienza, reperirne il ‘fondamento’ sul versante dell’essere e della verità piuttosto che su quello della rappresentazione: è nei termini tanto della rilettura heideggeriana del cogito cartesiano, quanto della presa in carico dell’apporto di Koyré[1] in materia di rapporto tra scienza moderna e soggetto filosofico della modernità, che Lacan nel 1965-66, al livello quindi del suo scritto “La scienza e la verità[2], che si muove per definire la pratica psicoanalitica nei confronti della scienza.

Ne La questione della cosa[3], la mira di Heidegger è la costituzione, intrinseca alla scienza moderna, dell’oggettività, oggettività funzionale alla costituzione della verità declinata come certezza, fissata, in definitiva, quale sua referenza ultima, sul soggetto cartesiano quale punctum firmum et inconcussum. Nella lettura del filosofo tedesco, la modernità si declinerebbe come sistema di sapere in rapporto ad un oggetto, o, meglio, ad una ‘cosa’, che presuppone una determinata concezione della verità, che si qualifica come identificazione “senza resto” tra verità e certezza.

La teoria della verità implicita nella concezione dell’oggetto che inaugura la scienza moderna, in virtù della quale elementi sostanziali e determinazioni fenomeniche si tengono in un rapporto di co-determinazione naturalistica, che non mette in discussione lo statuto della rappresentazione (ma che anzi è da questa garantita e resa possibile), da un lato risulterebbe sovradeterminata da una certa concezione della verità, dall’altro, avrebbe la necessità di strutturarsi, di trovare il suo supporto in una proposizione logicamente e linguisticamente definitiva.

Cosa e soggetto, proposizione e oggetto sono al centro di un’unica disamina per il loro essere costituiti all’interno di una concezione ‘ontica’ della verità, della verità, cioè, intesa come “semplice presenza”: scienza e metafisica, in questo senso, non sarebbero altro, se non strumenti ‘tecnici’ di quella riduzione dell’essere all’ente, i cui correlati sono la stabilizzazione del mondo, l’eliminazione del rischio, la pre-visione calcolante delle dinamiche sociali. Cogito ergo sum: Heidegger, e, per certi versi, Lacan, leggono l’affermazione di Cartesio in maniera non idealistica, alla stregua, cioè, della deduzione dell’essere da un atto di pensiero: il loro è un approccio attraverso il quale, all’interno della proposizione cogito ergo sum, si fa emergere la priorità ontologica del sum, e quindi della questione dell’essere, che lo stesso Cartesio avrebbe negato, a favore di una fondazione ‘ontica’ del rapporto con l’oggetto, dell’adaequatio rei et intellectus iscrivibile nell’ambito della “semplice presenza”.

Inoltre, ne La questione della cosa Heidegger riprende alcuni passi della Critica della ragion pura di Kant, oggetto a loro volta della critica di Schopenhauer, nei quali si evidenzia come i fenomeni percepiti nell’esperienza divengano entità concettuali, strutturandosi sulla base di una combinazione determinata tra elementi transeunti (la semplice determinazione dell’oggetto ed aspetti permanenti, considerati nel loro valore di stabilità (la sostanza). Il fenomeno in Heidegger appare ‘surdeterminato’ da una concezione storicamente determinata della verità, che gli fa da sfondo e che lo rende possibile in quanto tale: è solo rispetto ad un soggetto altrettanto determinato che l’oggetto di costituisce come oggetto d’esperienza.

La conoscenza dell’ente ha, così, luogo, ed è possibile sullo sfondo di una pre-comprensione (preliminare) che concerne l’essere dell’ente, cioè quel determinato ‘progetto’ attraverso cui l’ente viene ad essere ciò che è onticamente, configurandosi come “semplice presenza”: il “darsi alla presenza” dell’ente, in altri termini, è sempre il prodotto di un trascendimento, condizione necessaria della sua datità.

Heidegger, criticando il cogito, considerato iscritto sul versante della Vorstellung, per certi versi anticipa Lacan, fornendo una sua versione della fuoriuscita filosofica dell’oggetto dallo statuto della rappresentazione. Si ripete in tal modo una certa scansione tra filosofia e psicoanalisi: Schopenhauer, infatti, aveva anticipato ed in una certa misura ispirato Freud, situando a livello della pulsione l’oggetto, che Kant tiene ancora tutto all’interno del paradigma rappresentativo, dischiarando la necessaria fuoriuscita dalla Vorstellung per il del tramite il ricorso alla volontà (der Will), facoltà psichica che affonda le sue radici della “Cosa in sé”. Lacan, ne “La Scienza e la verità”, rilegge un testo freudiano[4] che verte sul medesimo argomento, strutturato col medesimo tenore concettuale, ma con la significativa differenza, però, che ora è questione di soggetto e non più di oggetto: è al livello del soggetto, infatti, che le coordinate teoriche del discorso di Heidegger rilevano. La valutazione dell’oggetto costituito nel campo scientifico va di pari passo con la determinazione di un soggetto inteso a tutti gli effetti costitutivo del campo dell’oggettività. Il primo passaggio di Lacan, dunque, consiste nell’avvicinamento al cogito cartesiano: la scienza non è tanto questione di oggetti d’esperienza, come vuole la tradizione empiristica, quanto, con maggiore rigore, del situarsi del soggetto rispetto ad una determinata modalità di relazione con l’essere: il soggetto della scienza coincide, in un certo senso, con il soggetto cartesiano.

L’assimilazione del cogito al soggetto della scienza deve essere problematizzata alla luce del pensiero di Koyré[5], epistemologo e storico della scienza russo, che Lacan considera un suo punto di riferimento nella sua ricerca: quest’ultimo, infatti, opera una radicale distinzione tra lo spirito scientifico di Cartesio, che consisterebbe nella sua radicale separazione dal divino e il cogito stesso, la cui stessa costituzione implica Dio stesso.

Ne “La scienza e la verità”, Lacan, dopo aver sostenuto che « Su questo punto Koyré è la nostra giuda, e si sa che è ancora misconosciuto »[6], aggiunge immediatamente dopo:

 Si è potuto osservare che l’anno scorso ho preso come filo conduttore un certo momento del soggetto che considero come un correlato della scienza: un momento storicamente definito di cui forse ci occorre sapere se sia a rigore ripetibile nell’esperienza, quello che Descartes inaugura, e che si chiama cogito. Questo correlato, come momento, è il défilé di un rigetto di ogni sapere, ma pretende tuttavia di fondare per il soggetto un certo ammarraggio nell’essere, che riteniamo costituire il soggetto della scienza, nella sua definizione, termine da prendere nel senso stretto di porta stretta[7].

Con questo, Lacan lascia trasparire l’idea che la scienza non sia in grado di ‘chiudere’ logicamente il campo che inaugura, che dipenderà, in ultima istanza, da un elemento eccentrico al sistema concettuale che ordina e costituisce.

Reperire allora le linee dell’avanzamento epistemologico della scienza in sintonia con Freud[8], che aveva sostenuto come l’unica Weltanschauung possibile della psicoanalisi fosse quella mutuabile dalla scienza, situare, ancora, la psicoanalisi rispetto a questo stesso avanzamento, obbliga a tener conto, problematicamente, della questione della sutura di un campo, che si costituisce, al pari del cogito, sulla base di un problematico posizionarsi rispetto alla presupposizione dell’esistenza di Dio, nonché di alcune sue qualità, che ne garantirebbero quell’”autolimitazione razionale” in grado di normalizzare il mondo, offrendolo, nella sua regolarità, all’osservazione degli scienziati. È doveroso, dunque, pensare sullo sfondo del cogito cartesiano la ripresa lacaniana della posizione freudiana, in virtù della quale la psicoanalisi non può costituirsi come una “visione del mondo”, per il semplice fatto che non è una “visione del mondo”, né, tanto meno, aspira ad esserlo: al tempo stesso, però è all’ammarraggio del pensiero all’essere, costituito dalla scienza sull’asse rappresentativo, che la psicoanalisi deve, necessariamente, fare riferimento. Ma quest’‘ammarraggio’, come lo definisce Lacan, in ultima istanza, non dipende dalla scienza, né può essere stabilizzato scientificamente, ragion per cui è del tutto lecito inferire che l’avanzamento in campo scientifico non rileva in sé, ossia inteso in senso quantitativo, ma acquista valore rispetto ad una determinata struttura soggettiva. Il “soggetto freudiano”, la cui cifra è la divisione soggettiva, è in un certo rapporto con il “soggetto della scienza”: l’inconscio, per Lacan, situa il suo limite costitutivo sulla stessa frontiera che conferisce coerenza al soggetto della scienza. Quest’approccio, dunque, determina un campo che è inclusivo certamente della psicoanalisi, ma anche della linguistica e dell’antropologia culturale: è al livello della scienza che la psicoanalisi deve ricercare il proprio fondamento di legittimità, a tutti gli effetti inclusivo di un’interrogazione avente per oggetto la psicoanalisi stessa come scienza.

L’avanzamento nel campo antropologico, al pari di quello che ha luogo in linguistica, avrà necessariamente conseguenze sullo statuto di scientificità della psicoanalisi: in questo senso, è del tutto legittimo per Lacan “tornare a Freud”. Come evidenzia magistralmente Zafiropoulos, è acquisendo l’avanzamento compiuto da Lévi-Strauss in antropologia[9], che Lacan si libererà dalle pastoie dell’empirismo sociologico e dall’impianto durkheimiano, che costituisce la cornice concettuale dei suoi primi scritti: la seguente breve disamina del complesso rapporto che Freud intrattiene con l’antropologia culturale vive nella prospettiva di mostrare la travagliata compresenza di elementi strutturali ed elementi storico-sociologici, rapporto che, letto nell’ottica del Lacan del Discorso di Roma[10], è da considerarsi prelusivo alla risoluzione lévi-straussiana di quella contraddizione interna tra momento empirico e momento strutturale che affetta, così significativamente, Totem e tabù.

 

            2) Freud antropologo, tra struttura e storia

In Freud, il mito di Edipo, letto sulla scorta della griglia concettuale dell’antropologia di Roberstson Smith, di Frazer e di Durkheim[11] non è solo una teoria di antropologia sociale: è anche il principio strutturante tanto l’accadere psichico individuale, tanto lo sviluppo stadiale della pulsione, quanto la percezione della realtà come principio. È in modo del tutto conseguenziale alla risoluzione in antropologia del pluriennale dibattito sul nesso totemismo-tabuismo-esogamia, operato da Lévi-Strauss, che Lacan può accedere al nucleo strutturale sotteso alla concettualizzazione freudiana, liberandola dagli impacci dell’empirismo, liberando il suo stesso approccio alla psicoanalisi da quei riferimenti empirici che caratterizzano la sua riflessione prima del 1953[12], anno del suo “ritorno a Freud”. Ancora, è attraverso Lévi-Strauss, tramite cioè la sua rivisitazione strutturale dell’Edipo all’interno della teoria dello scambio generalizzato che la psicoanalisi può pensare la causa al di fuori del paradigma teologico-metafisico, ossia al di fuori della generazione a partire dall’ideale, evidenziando, in un certo senso, la subalternità (almeno parziale) di Freud a quella “questione ebraica”, da cui lo scienziato viennese non sarebbe mai riuscito ad emanciparsi, se non in parte[13]. La questione dell’intreccio tra elementi strutturali ed elementi empirici nell’antropologia psicoanalitica sarà al centro della seconda parte di questo contributo: quest’elaborazione, in Lacan, non la si può ritenere scissa dall’avanzamento della scienza, intesa in generale.

Per quanto la psicoanalisi non sia ascrivibile, se non parzialmente, al campo delle ricerche in materia di antropologia culturale, il suo apporto è stato essenziale ai fini dell’approccio a quel “senso interno” necessariamente esistente tra istituti sociali pre-storici, tipicamente, tra totemismo ed esogamia, di cui le ricerche precedenti non erano state in grado di occuparsi, in virtù di un riferimento esclusivo alla componente esterna, quantificabile, dei fenomeni oggetto di studio. Posizioni determinate intellettualisticamente, come quelle di Frazer, Lang, MacLennan, Jevons e Reinach, avevano ‘mancato’ questa determinazione, si era preclusa quella comprensione ‘totale’ del culto totemico che avrebbe reso sempre più esigua la distanza tra culture pre-storiche e culture immerse nel tempo secolare, forgiate sul calco dell’ideale del progresso per ottemperare ai criteri epistemologici costitutivi l’antropologia culturale, con la sola, lodevole eccezione di Robertson Smith. Anche per Freud, come per Robertson Smith, è una potente intuizione preliminare a produrre un grande avanzamento nella comprensione delle culture primitive, avanzamento favorito e reso possibile, seppur controfattualmente, anche da errori che hanno ben altra radice da quelli indotti dall’intellettualismo di un Frazer o di Smith. In Freud esiste sì una lettura pre-giudizievole dei dati antropologici (la cui conoscenza gli derivava dallo studio dei contributi scientifici e dei resoconti che circolavano in quegli anni tra gli studiosi, studio che egli stesso dichiarò di aver affrontato con in mente la soluzione del problema), ma tale pre-giudizio non era di taglio intellettualistico, ma aveva un fondamento molto solido, derivandogli dalla considerazione della reale fecondità delle conquiste della psicoanalisi, maturate nella pratica analitica. Presupposto di quest’estensione all’antropologia, una teoria che sarebbe stata oggetto, successivamente, di profonda irrisione, se non di disprezzo da parte di antropologi, biologi e anche di psicoanalisti criticamente avvertiti: l’ipotesi, di marca strettamente positivista, in virtù della quale l’”ontogenesi ricapitola la filogenesi”, che può essere sintetizzata nella presupposizione che vi sia un nesso strutturale di identità tra l’evoluzione dell’individuo e quella della specie.

Nella misura in cui la nevrosi, con particolare riferimento qui alla nevrosi ossessiva, in cui il ruolo del cerimoniale è essenziale, è considerata da Freud una forma regressiva rispetto allo stato adulto, caratterizzato da una maturazione pulsionale fallico-genitale, l’identificazione tendenziale tra bambino e nevrotico diventa un’identificazione a tre, includendo l’uomo primitivo. Ed è da Totemism and Exogamy di Frazer che Freud acquisì quei principi che fanno da pilastro alla sua analisi, riservando, a partire dalle scoperte ivi contenute, un intero capitolo del celeberrimo Totem e Tabù[14] all’analisi scrupolosa di tutta la letteratura antropologica in materia di totemismo. All’interrogativo: « Che cos’è il totem? », Freud, risponde nei seguenti termini: « Di solito un animale, un animale commestibile, innocuo o pericoloso e temuto; oppure, più raramente, una pianta o un elemento naturale (pioggia, acqua) legato al clan da un rapporto particolare. »[15]

Anche lo scienziato viennese non si pose, come d’altronde Frazer, il problema di come queste società identificassero classi di entità totemiche, considerando presupposta la classificazione stessa. Così, i primitivi configurerebbero nel totem il loro progenitore, provvedendo ad organizzare, periodicamente, riti in cui si indossavano maschere e si travestivano loro stessi da totem, riducendo così quell’ambivalenza che li voleva, contemporaneamente, assimilati e differenti dall’entità assunta da progenitrice. Saremmo in presenza di un sistema di regole assai minuziose, in cui « […] l’appartenenza al totem è il fondamento di ogni obbligo sociale da un lato precede in importanza l’appartenenza alla tribù e dall’altro sposta in secondo piano i rapporti di consanguineità »[16].

Se Totem e Tabù costituisce, come palese sin dalla prefazione, una pietra miliare non solo per l’antropologia psicoanalitica, ma anche per l’antropologia culturale stessa[17], è perché Freud, al pari di Smith, estende il campo del pensiero totemico, fino a farne una chiave interpretativo-genealogica delle istituzioni ‘civili’. Se per Smith, come abbiamo visto, in questione è il rapporto tra culti totemici e religioni storiche, in Freud, invece, l’attenzione si pone ad un livello d’analisi ancora più profondo, nel senso che lo scienziato ritiene che vi sia un rapporto di parentela concettuale, decifrabile quindi genealogicamente, tra interdetti edipici e interdizioni legate all’esogamia. A sua volta, questa lettura forniva anche una chiave interpretativa di quell’’illusione’ particolare che per Freud — fortemente influenzato da un’educazione ebraica da cui desiderò fortemente emanciparsi probabilmente senza mai riuscirci fino in fondo — era la religione: connettere le scoperte della psicoanalisi all’evoluzione della civiltà, costituiva, in effetti, un notevole avanzamento nelle pretese di una prassi che, fino ad allora, era rimasta confinata alla pratica di pochi studi privati. Con Totem e Tabù, non solo l’antropologia, ma la stessa psicoanalisi acquisisce un nuovo statuto, costituendosi alla stregua di un’inedita chiave interpretativa di tutto quel patrimonio concettuale che, fino a quel momento era stato fortemente monopolizzato dalla dogmatica teologica. Freud legge gli antropologi sovrapponendo, non senza qualche imbarazzo, alle scoperte dell’antropologia i risultati rivenuti nell’esplorazione psicoanalitica: nella lettura di Totem e Tabù ci si imbatte passi che evidenziano dubbi, incertezze, che Freud, con grande onestà segnala, ma che poi risolve senza lasciarsi interrogare sino in fondo dall’alterità e del “pensiero selvaggio”[18].

Il limite concettuale maggiore di Freud consiste nell’identificazione del “tabù dell’incesto” quale nucleo essenziale ed universale del nesso tra totemismo ed esogamia. Com’era accaduto per altri versi nella letteratura antropologica precedente, Freud considera l’acquisizione prodotto dei saperi contemporanei la base concettuale delle realtà antropologiche oggetto del suo interesse. Non ricerca all’interno del dispositivo totemico e del suo sviluppo la chiave di lettura del “tabù dell’incesto”, anteponendogli logicamente le realtà della famiglia nucleare e dell’Edipo così come il mondo civilizzato le conosce, universalizzando forme e contenuti. Essendo famiglia nucleare e consanguineità entità praticamente equivalenti sul piano concettuale, Freud finisce per interpretare i dati che la ricerca antropologica sottoponeva al suo sguardo retroagendo nel passato le scoperte della psicoanalisi. Non senza qualche imbarazzo: nel tenere per veri i modelli, a tutti gli effetti congiunti, della consanguineità, di cui presuppone la conoscenza da parte dei primitivi, e della famiglia nucleare, si accorge che questa prospettiva non è sufficiente per rendere ragione del fenomeno nella sua integrità, laddove il culto totemico venga paradigmaticamente assunto come oggetto della ricerca. Con l’onestà e il rigore che ne contraddistinsero la cifra di studioso, segnala questa difficoltà nei seguenti termini:

Tutto ciò che deriva dallo stesso totem è legato da un rapporto di consanguineità, è una famiglia, e in questa famiglia anche il più lontano grado di parentela è considerato un impedimento assoluto all’unione sessuale. Questi selvaggi, insomma, ci rivelano un orrore o una sensibilità estremamente sviluppata nei confronti dell’incesto, unita alla particolarità – solo imperfettamente comprensibile per noi – di sostituire alla consanguineità reale la parentela col totem. Non dobbiamo tuttavia accentuare troppo questo contrasto, e occorre tener presente che le proibizioni totemiche includono il vero e proprio incesto come caso particolare.[19]

Freud parla di “motivi solo imperfettamente comprensibili a noi”, ma non è semplice decifrare in che misura questo plurale sia un c.d. plurale majestatis, e quindi, in sostanza, una prima persona, o un riferimento al soggetto della civilizzazione. Sia quel che sia, risulta vano il suo tentativo di inquadrare correttamente il tabù dell’incesto all’interno del dispositivo totemico, situando al cuore di quest’ultimo realtà considerate al tempo stesso basiche e universali, quali la famiglia nucleare, la consanguineità, la funzione strutturante dell’edipo. A questo livello, il divieto di prendere come moglie una donna anche estremamente distante nella parentela, ma interna al gruppo istituito su base clanica risulta effettivamente incomprensibile a Freud, che deve accontentarsi di costatare che l’incesto propriamente detto, quello edipico, è incluso e non contraddetto dalle regole totemiche.

Allo stesso modo, gli risulta incomprensibile la spiegazione del fatto che il piccolo nato in queste realtà sociali chiami padre o madre tutti i soggetti che, nel sistema di parentela, hanno la stessa posizione del padre o della madre intesi alla luce del paradigma della famiglia nucleare e della consanguineità. « Qualcosa di analogo a questo sistema classificatorio esiste anche da noi, per esempio nei bambini, quando li esortiamo a salutare col nome di ‘zio’ e di ‘zia’ ogni amico e amica dei genitori, oppure in senso figurato, quando parliamo di “fratelli in Apollo” (fratelli dell’arte di poetare), o di “sorelle in Cristo” »[20]: è in questo punto che Freud, seppur solo intuitivamente, si avvicina alla realtà del fenomeno totemico, che istituisce rapporti di parentela da intendersi realisticamente alla maniera di Smith a partire da un progenitore presunto, e che sono considerati tali, e quindi ‘veri’, indipendentemente dalla consanguineità, costituendo genealogicamente l’archetipo della fratellanza universale cristiana, che non è una fratellanza di sangue. Nonostante quest’intuizione balugini nella mente di Freud, è ricondotta al modello familiare, invece di essere e interpretata all’interno del dispositivo totemico, sua iuxta principia: se il bambino chiama papà o mamma ogni membro di una determinata classe di soggetti determinata su base esogamica, non è perché li ritiene padre o madre, misconoscendo o ignorando addirittura le modalità reali di fecondazione, ma perché, nell’interpretazione data, il modello del matrimonio di gruppo, dell’orda primordiale, precede in ordine di tempo quello della famiglia nucleare. Dunque, avendo quale modello universale la famiglia nucleare, il ‘padre’ della psicoanalisi non riesce a spiegarsi perché il nome di padre o di madre non connotino una relazione tra individuo e individuo, quanto piuttosto un rapporto tra un bambino e tutti quegli individui che, nell’ambito del gruppo sociale di appartenenza erano potenzialmente liberi da interdetti legati alla paternità o alla maternità: il ricorso all’ipotesi del matrimonio di gruppo, ancora una volta, gli è funzionale a riportare questa realtà nel suo schema. Da un lato, Freud evidenzia come il sistema totemico sia a fondamento di obblighi sociali rigidamente introiettati dai membri, dall’altro, però, questo sistema di definizione al tempo stesso della discendenza verticale e della parentela orizzontale avrebbe la sua giustificazione in un altro sistema, quello della consanguineità, che, tra l’altro, non sappiamo in che misura fosse accettato dagli aborigeni, spesso terrorizzati dal sangue dei propri congiunti. Non solo il modello di vincolo pre-storico è quello che Durkheim definisce della “solidarietà meccanica” o “per identificazione”, il che esclude che un individuo possa rappresentarsi come tale e rapportarsi ad un altro individuo, essendo tutti i membri fusi nel gruppo di appartenenza e indistinguibili da esso, ma è davvero molto difficile pensare che la discendenza da una pianta o da un evento meteorologico o naturale come il fulmine possa esser inteso come istituente rapporti di consanguineità. Freud stesso, quando parla di queste popolazioni, enucleando come caratteristica del pensiero primitivo l’onnipotenza, fa riferimento al loro approccio al reale nel senso dell’assenza di una netta separazione tra parola e cosa, tra oggetto e sua designazione nominale, tra rappresentazione di cosa e rappresentazione di parola, il che, tradotto nel linguaggio dei sociologi del diritto, equivale a dire che alle popolazioni pre-storiche è interdetto quel pensiero che scinde la sfera dell’essere da quella del dover-essere. Ma se in questi gruppi l’elemento rappresentativo e quello doveristico sono immanenti agli stessi rapporti sociali, come pensare che la realtà degli interdetti totemici riposi in un’area, quella della consanguineità e della famiglia nucleare, del tutto eccentrica? Nella misura in cui Freud afferma che, in virtù del principio dell’onnipotenza dei pensieri: « Le relazioni che sussistono tra le rappresentazioni vengono presupposte anche tra le cose », perché questo principio resta valido solo al livello di psicologia collettiva, senza risvolti nella costituzione dell’ordine sociale?

Paradossalmente, però, la logica totemica finisce per persuadere Freud in un altro senso: quello del reperimento di un “mito fondatore”, quello dell’omicidio del padre primordiale da parte dei figli, con il quale, sempre all’interno dell’interpretazione della comunità parentale come espressione della consanguineità,  si giustifica e si interpreta la logica del sacrificio totemico, lettura nella quale si fanno propri, almeno fino ad un certo punto, i risultati di Robertson Smith e si acquisisce l’importante ascrizione del sacrificio di Cristo all’interno della logica totemica. Freud acquisisce e fa sua la lettura in virtù della quale « […] l’uccisione di una vittima rientrava originariamente tra le azioni proibite dall’individuo e giustificate solo quando l’intero clan se ne assumeva la corresponsabilità. […] la comunità che compiva il sacrificio, il dio e l’animale sacrificale erano dello stesso sangue, membri di un solo clan della tribù »[21]. La chiave interpretativa del sacrificio sarebbe nel fatto che il consumo in comune dell’animale immolato avrebbe il senso di creare prima e rafforzare poi il vincolo che costituisce in un duplice senso (verticale e orizzontale) la comunità. Questo vincolo riguarderebbe, contemporaneamente, le dimensioni del sacro, a tutti gli effetti trascendente la realtà materiale del gruppo, e della socialità, che dell’atto sacrificale, in un certo senso, è causa ed effetto, contemporaneamente. Giunto a questo punto, però, Freud opera con la stessa modalità con cui aveva reso intellegibile il culto e gli interdetti totemici: vi sovrappone la famiglia nucleare, fornendone una ricostruzione in termini totemici, ricostruzione il cui fondamento riposa, cioè, su di un mito, quello dell’omicidio del padre da parte dell’orda primordiale. Ad essere invertita, è l’evoluzione temporale dell’istituto del culto totemico: non il padre e la famiglia nucleare così come noi la conosciamo sarebbero l’effetto di un maneggiamento del sistema totemico, quanto, piuttosto, il contrario. L’animale totemico è considerato un sostituto improprio del padre sulla base della tendenziale equiparazione tra nevrotico, bambino e primitivo, entità pre-edipiche, ma non per questo non riconducibili al principio paterno. È così che l’”oggetto fobico” del caso clinico del “piccolo Hans”[22], elaborato solo successivamente nel corpus freudiano si erge a paradigma esplicativo della funzione dell’animale totemico sulla base dell’acquisizione della teoria dell’omogeneità strutturale di ontogenesi e filogenesi: se per il bambino oggetto della cura psicoanalitica la fobia del cavallo era una spia dell’angoscia di castrazione indotta dal padre e causata dalla particolare tenerezza intercorrente con la madre, l’equazione padre=animale totemico poteva essere legittimamente trasposta su una scala più ampia, vista l’identificazione tendenziale tra bambino e uomo primitivo.

A corredo di questa tesi, la costatazione che l’indistinguibile marchio che ricondurrebbe l’animale totemico e il suo sacrificio al padre (sacrificio perpetrato eccezionalmente dal gruppo nella sua interezza e mai dal singolo) sarebbe proprio l’ambivalenza emotiva con cui il primitivo vive la cerimonia del sacrificio:

La psicoanalisi ci ha rivelato che l’animale totemico è realmente il sostituto del padre, col che si accorderebbe bene la contraddizione, secondo la quale la sua uccisione è proibita in ogni altro caso, eppure diventa occasione festosa; si accorda il fatto che si uccide l’animale e pure se ne compianga la morte. L’atteggiamento emotivo ambivalente che caratterizza ancor oggi nei nostri bambini il complesso del padre, e si prolunga spesso nella vita dell’adulto, pare estendersi a quel sostituto del padre che è l’animale totemico.[23]

Freud reinterpreta il sacrificio alla luce di un mito fondatore, acquisito in un primo momento secondo le coordinate concettuali elaborate da Robertson Smith: il pasto totemico, proprio dei riti sacrificali, non sarebbe più il modo eccezionale con cui la comunità celebra la propria unione con il totem, quanto la ripetizione di un rito primordiale, quello con il quale i figli avrebbero tentato di liberarsi, uccidendolo e incorporando per via orale le sue spoglie. Se l’ambivalenza emotiva è per lo psicoanalista caratteristica essenziale della psiche primitiva[24], e se il padre odiato è anche amato, la sua uccisione avrebbe dato origine da un lato all’interdetto di accoppiarsi con donne dello stesso gruppo, dall’altro al senso di colpa per l’uccisione stessa del padre. Lo scienziato viennese rende ragione, attraverso il senso di colpa successivo all’omicidio del padre primordiale, non solo dell’origine della coscienza morale, quantanche di due divieti molto sentiti e assai severamente puniti nell’antichità, quello di uccidere il padre e di possedere la madre, spiegati attraverso la repressione di due impulsi imperiosi, inarginabili e scandalosi: per l’appunto, quello ad eliminare il padre e a godere della madre. Per quanto Freud stesso ne dichiari lo statuto di “mito necessario”, questo racconto resta pur sempre un mito, la cui funzione, in verità, è più quella di delucidare la funzione paterna come momento di giunzione tra natura e cultura (nel senso « in cui è possibile coglierne la funzione nel campo d’indagine dell’inconscio »[25]), che non di rendere ragione di una dinamica antropologica intesa in senso storico-evolutivo. Non casualmente, la lettura strutturalista del mito freudiano, iniziata da Kroeber e perfezionata da Lacan attraverso la mediazione di Lévi-Strauss, è l’unica in grado, al prezzo però della sconnessione del nesso tra totemismo ed esogamia, di restituire dignità antropologica all’interpretazione freudiana. È solo attraverso quest’indispensabile mediazione che si realizzerà il “ritorno a Freud” proprio della psicoanalisi strutturalista[26]: per Lévi-Strauss, la teoria del divieto rituale dell’incesto va interpretata nell’ambito di una distinzione tra natura e cultura, ove il primo dominio, quello naturale, è retto da leggi universali, mentre il culturale sarebbe regolato da leggi generali, circoscritte in senso spazio-temporale nella loro vigenza: in questo senso, è possibile affermare che naturale nell’uomo è ciò che è universale, ma, sostiene l’antropologo francese, cosa c’è di più universale per l’uomo del suo essere, da sempre, un essere culturale? Poiché ogni uomo appartiene imprescindibilmente ad un ordine culturale, naturale per l’uomo può essere solo ed esclusivamente l’ordine culturale.

La proibizione dell’incesto, a questo punto, costituisce il sostrato essenziale di quegli scambi matrimoniali, che costituiscono in Antropologia culturale l’archetipo di tutte le regole culturali: con l’ordine edipico, l’uomo partecipa del naturale attraverso la sua iscrizione imprescindibile nella dinamica edipica. È nella misura in cui la legge di proibizione dell’incesto è in grado di stabilire il limite tra natura e cultura, che l’ordine edipico ha facoltà di costituirsi come il sostrato universale che designa la dimensione del naturale nell’uomo. In sostanza, l’ordine edipico si definisce proprio come il luogo di un simile conflitto, capace di giungere a una soluzione, in quanto permette al soggetto di accedere al registro simbolico, alla cultura.

Riassumendo, la cultura è, dunque, in questa prospettiva, il risultato dell’espressione di una mancanza: poiché il naturale è considerato isomorfo all’ordine edipico, la cultura diviene legittimamente l’autentica natura dell’uomo, che nasce dalla proibizione originaria dell’incesto. In questo senso, la problematica natura-cultura rimette al centro, a pieno titolo, la questione del padre in psicoanalisi, dato che è precisamente della proibizione originaria dell’incesto che ci si sforza di rendere conto del mito freudiano del padre nell’orda primitiva. Dati i limiti del presente lavoro, non si ritiene di poter entrare in dettaglio nel discorso di Lévi-Strauss: ci si limiterà ad evidenziare come, se il simbolico caratterizza universalmente l’uomo, la differenza tra natura e cultura è solo una differenza quantitativa tra regole universali e regole più o meno circoscritte. A rigore, dunque, vi è solo un differenziale di grado la vigenza di regole di comportamento: quest’approccio di natura strutturale, sia in Freud che in Lévi-Strauss, conduce all’enucleazione di una realtà, a vario titolo naturale, quella della famiglia nucleare, che per essere inteso come basico dell’ordine totemico ha bisogno della riduzione concettuale dell’ordine totemico a quello della famiglia nucleare ristretta, che ne costituirebbe la chiave interpretativa. Molto più coerentemente di Freud, Lévi-Strauss legittima quest’acquisizione, liquidando sostanzialmente la problematica totemica, che viene considerata ne Il totemismo oggi, una categoria concettuale non attualizzabile, una superfetazione della dimensione, di per sé orizzontale e immanente, dello scambio; è del tutto evidente che Lacan reperisce nella teoria strutturalista, quale avanzamento della teoria antropologica, quella risoluzione delle impasse della teoria dell’omicidio del padre primordiale, che ricercava già nel 1938, quando dichiara che quest’ipotesi si troverebbe ridotta « a un fantasma sempre più incerto man mano che progredisce la nostra conoscenza degli antropoidi ». È a quest’avanzamento del sapere e della conoscenza, più che non a quelle che egli stesso definisce “le petizioni di principio della teoria freudiana”, che Lacan ritiene in quel momento incarnata dall’ipotesi del matriarcato originario, che si affida in maniera estremamente significativa, già ne I complessi familiari, il superamento dell’ipotesi freudiana.

3) Periodizzazione o puntuazione? Il dogma trinitario tra Lacan e Kojève.

Il 30 novembre 1960, commentando il Simposio platonico all’interno del suo Seminario dedicato alla relazione di transfert[27], Jacques Lacan, sottolineando l’importanza e la portata teologica del discorso sull’amore di uno dei partecipanti al banchetto, Fedro, non manca di fare riferimento ad un passo delle Enneadi di Plotino, ribadendo come la trinità cristiana sia sovrapponibile alla triade Zeus-Afrodite-Eros[28]. Questa posizione così decisa in materia di esegesi trinitaria è ribadita qualche anno dopo; nella lezione d’apertura del seminario tenutosi nel ‘65-‘66 all’Ecole Normale Supérieure, di cui “La scienza e la verità” è il resoconto stenografato, Lacan sostiene:

Ho notato, di passaggio, quanto abbiamo da imparare sulla struttura della relazione del soggetto con la verità come causa nella letteratura dei Padri, o nelle prime decisioni conciliari. Il razionalismo che organizza il pensiero teologico non è affatto, come il piattume se l’immagina, un affare di fantasia. Se fantasma c’è, è nel senso più rigoroso di istituzione di un reale che copre la verità. Non ci sembra affatto inaccessibile ad un trattamento scientifico il fatto che la verità cristiana abbia dovuto passare attraverso l’insostenibile di un Dio Tre e Uno. La potenza ecclesiale va assai bene d’accordo con un certo scoraggiamento del pensiero. Prima che sulle impasse di un simile mistero, va posto l’accento sulla necessità della sua articolazione, che è salubre per il pensiero. Questa deve misurarsi con quella.[29]

Questa riflessione segue di poco la pubblicazione di un importante scritto di Alexander Kojève, centrato sul rapporto tra scienza moderna e cristianesimo, che si esprime sulla stessa questione, ma in un senso opposto: mentre per Lacan la questione trinitaria non sarebbe altro che il rivestimento fantasmatico di una struttura logica imperniata sul rapporto, tutt’altro che lineare, tra unitarietà e triadicità, logicamente preesistente alle figure con cui si invera storicamente, rivestimento di cui la dialettica hegeliana sarebbe niente di più che un’ulteriore riedizione, l’intellettuale russo, nell’interrogarsi sul rapporto tra scienza moderna e scienza pagana, costruisce una periodizzazione in virtù della quale il Cristianesimo porterebbe una discontinuità nel contesto della scienza pagana e del neoplatonismo, indotta proprio dall’incarnazione[30]. Si fa spesso riferimento, a ragione e con dovizia di corrette argomentazioni, alla stringenza, umana e culturale, del rapporto tra Lacan e Kojève: eppure, ci chiediamo, cosa passa nella non immediatamente palpabile differenza tra lo storicismo hegeliano dell’intellettuale russo e l’ipotesi strutturalista di Lacan? « Ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale », aveva sentenziato Hegel. Cosa intendeva? Non certo che ogni accadimento ha un suo rapporto organico con il senso, e, quindi, che tutto è giustificato, ma che l’accadere, la storia, sono in un certo rapporto con la logica, in particolare con la dialettica.

Ora, per quanto possa apparire in prima istanza un semplice dettaglio, tra la posizione di Lacan e quella di Kojève vi è una distanza notevole, perché mentre l’intellettuale e filosofo d’origine russa tiene, hegelianamente, alla consistenza del rapporto logica-storia, consistenza rivelatrice della razionalità del mondo dei fenomeni, operando nel senso della periodizzazione storica, Lacan opera come se la storia e le formazioni culturali e sociali, tra cui la religione, fossero entità non originali ma simulacrali, epifenomeno di entità logiche sottese.

In questa prospettiva, la teologia che si ‘arrabbatta’, come dice Lacan, con la Trinità cerca, a parere di Lacan non senza difficoltà, di formalizzare nel corpus dottrinario della Chiesa un rapporto logico, quello tra i numeri primi uno, due e tre, che preesiste, quantomeno logicamente ad ogni istituzionalizzazione. Si noti, inoltre, come questo situarsi ‘formale’ nel campo del sapere consente a Lacan di prendere una precisa posizione nei confronti della religione, senza per questo entrare, direttamente, in questioni di natura teologica: è lo stesso avanzamento di un determinato soggetto epistemico che consente di smarcarsi da una prospettiva come quella teologico-metafisica, senza contraddirla direttamente, senza, cioè, dichiararsi pro o contro la religione cristiana.

Interrogando il rapporto logica-storia, o, il che è in parte il medesimo, il rapporto fenomeno-struttura, sembra del tutto lecito porre l’interrogativo: è possibile considerare, e a che titolo, la psicoanalisi lacaniana, con quella freudiana, parte della “scuola del sospetto”? Non è eccessivo rispondere a quest’interrogativo evidenziando come la psicoanalisi lacaniana si strutturi in maniera del tutto sintonica alla risoluzione del rapporto tra ideale e reale, operato da Lévi-Strauss: è grazie all’apporto dell’antropologia strutturale che Lacan si è smarca dall’idealismo hegeliano, così come recepito da Kojève.

La risoluzione del nesso di coimplicazione tra ideale e reale operata da Lacan ha però un ‘nome’, una sorta di luogo che lo determina in modo privilegiato: la risoluzione antropologica del nesso tra totemismo ed esogamia, così come operato da Lévi-Strauss a partire dal celeberrimo pamphlet Il totemismo oggi. Questo, innanzitutto perché la liquidazione del totemismo e la lettura lévi-straussiana del mito di Edipo, sulla cui scorta lo scambio esogamico è l’effetto della dinamica degli scambi tra clan, la cui ragion d’essere e la cui costituzione non è più l’effetto di una ‘filiazione’ totemica, consentono di porre in essere un principio di organizzazione del reale in virtù del la quale, lo ricordiamo, la paternità e, coerentemente, la causalità, non sono più dell’ideale, ma del reale: è sotto questa condizione che Lacan può dissociare la causalità della psicoanalisi da quella della religione.

[1] A. KOYRÉ, Entretiens sur Descartes, appendice all’edizione francese de Introduction à la lecture de Platon, Gallimard, Paris 1962, p. 163-229.

[2] J. LACAN, “La scienza e la verità”, Scritti, a cura di G. Contri, vol. II, Einaudi, Torino 1974, p. 859-882.

[3] M. HEIDEGGER, Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von den transzendentalen Grundsätzen (1962), trad. it., La questione della cosa, a cura di V. Vitiello, Guida Editore, Napoli 1989.

[4] Cfr. S. FREUD, Intorno ad una ‘Weltanschauung’, in Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse. Neue Folge der Vorlesungen zur Einfürung in die Psychoanalyse (1917), trad. it., Introduzione allo studio della psicoanalisi (Prima e nuova serie), Astrolabio, Roma 1978, p. 486-505.

[5] Cfr. A. KOYRÉ, Entretiens sur Descartes, Appendice a Introduction à la lecture de Platon, cit., p. 167-185.

[6] J. LACAN, “La scienza e la verità, cit., p. 860.

[7] Ibidem.

[8] Si tratta di una posizione sintonica con quella espressa da Freud (S. FREUD, Intorno ad una ‘Weltanschauung’, cit., p. 505): «La psicoanalisi, credo, è incapace di crearsi una sua Weltanschaung. Essa non ne ha bisogno, fa parte della scienza e può aderire alla verità scientifica. Ma alla scienza non compete quasi il nome altisonante di Weltanschauung poiché essa non considera tutto, è incompleta, non ha la pretesa di essere chiusa in sé e di formare un sistema. Il pensiero scientifico è ancora molto giovane tra gli uomini, non ha potuto ancora risolvere troppi dei grandi problemi. Una Weltanschaung costruita sulla scienza, oltre che accentuare il mondo esterno reale, ha essenzialmente tratti negativi, come il richiamo alla verità, il rifiuto delle illusioni. Chi tra i nostri simili è malcontento di questo stato di cose, chi chiede di più per potersi momentaneamente consolare, se lo procuri dove lo trova. Noi non ce ne avremo a male, non lo possiamo aiutare, ma non possiamo nemmeno, in suo onore, pensare diversamente».

[9] È in questi termini che Lacan ritiene, a proposito del caso freudiano de L’uomo dei topi, doverosa la lettura dell’Edipo, riletta alla luce dell’avanzamento teorico reso possibile dalle ricerche di Lévi-Strauss: «Il sistema quaternario così fondamentale nelle impasses, la insolubilità della situazione vitale dei nevrotici, è di una struttura assai diversa da quella che è data tradizionalmente: il desiderio incestuoso per la madre, l’interdizione del padre, gli effetti di ostruzione che ne derivano e, tutt’intorno, la proliferazione più o meno lussureggiante dei sintomi. Io credo che questa differenza dovrebbe indurci a ridefinire l’antropologia generale derivata dalla dottrina analitica così com’è finora insegnata. In poche parole, è da criticare tutto lo schema dell’Edipo», J. Lacan, Le Mythe individuel du névrosé (1953), trad. it., Il mito individuale del nevrotico, a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio, Roma !986, pp. 26-27. Come evidenzia M. Zafiropoulos (Lacan et Lévi-Strauss, ou le retour à Freud (1951-57), Paris, Puf, 2003, p. 71): «Pour dire les choses autrement, on écrira qu’à partir de la prévalence des organisations symboliques socialement partagées et pour répondre aux difficultés rencontrées dans les particularités de son histoire ou encore aux difficultés de son mode de positionnement au cœur même de son inscription mythique (ou symbolique), le sujet produit des symptômes, des complexes, une névrose ayant elle-même une structure mythique car ce n’est rien d’autre qu’une version individuelle des difficultés rencontrées par le sujet dans la situation symbolique qui lui est faite (sa subjectivation). D’où l’idée de Lévi-Strauss de reconnaître dans les névroses autant de mythes individuels strictement complémentaires des organisations mythique socialement partagées. Lacan en 1953 endosse cette perspective en décrivant la névrose obsessionnelle comme Le mythe individuel du névrosé ». Per C. Lévi-Strauss per affrontare la tematica del totemismo bisogna prima di tutto negare l’atteggiamento ingenuo con cui gli antropologi affrontano le culture pre-storiche (Le totemisme aujourd’hui, Paris, Puf, 1962, p. 5): « Al totemismo e all’isteria è toccata un’identica sorte. Quando ci si è resi conto come fosse dubbio poter isolare arbitrariamente certi fenomeni e raggrupparli tra loro per farne i sintomi di una malattia o di una istituzione oggettiva, anche i sintomi sono scomparsi, o si sono dimostrati refrattari a interpretazioni unificanti. Per quanto riguarda il “grande” isterismo, a volte questo cambiamento viene spiegato come un effetto dell’evoluzione sociale che avrebbe spostato dal piano somatico a quello psichico l’espressione simbolica dei turbamenti mentali. Ma il confronto del totemismo suggerisce una relazione d’ordine diverso tra le teorie scientifiche e il livello di civiltà, relazione in cui lo spirito degli scienziati interverrebbe allo stesso modo e ancor più di quello degli uomini studiati: come se, con la scusa dell’oggettività scientifica, i primi cercassero di rendere i secondi – malati mentali o presunti ‘primitivi’ – più differenti – di quanto non siano ».

[10] J. LACAN, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, Relazione al Congresso di Roma, tenuto all’Istituto di psicologia dell’Università di Roma il 26 e 27 settembre 1953 e pubblicato per la prima volta ne « La Psychanalyse », Puf, vol. I, 1956, p. 81-166, ora in J. LACAN, Scritti, vol. I, cit., p. 230-315.

[11] Per un bilancio dell’impresa teorica durkheimiana all’interno del quadro del panorama transalpino, cfr. Cl. LEVI-STRAUSS, La sociologia francese dalle origini al 1945, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 53 e ss.

[12] Che l’elaborazione di questa teoria passi anche per una revisione del ruolo che madre e padre hanno nella vicenda della costituzione dei gruppi, emerge chiaramente dal seguente passo di Markos Zafizipoulos, che si concentra sul rapporto tra pasto totemico e fondazione della comunità, inteso rispetto ai ruoli genitoriali. Appare chiaramente che, nel 1938, Lacan attribuiva un certo valore al ruolo costitutivo della madre, come alle teorie del matriarcato originario: « Le caractère sacré du repas assure le lien au père et plus généralement à la tribu du père, explique Freud; ce qui rendrait compte aussi du fait que, dans le familles primitives constituées selon la règle de l’exogamie, il n’y aurait pas de repas commun. Au contraire, les membre d’un même clan mangent et boivent en commun, car pour cette institution (antérieure à la famille selon Freud) manger et boire ensemble c’est renforcer la substance commune et partager le repas avec son dieu. Le père chez Freud vient donc d’abord par la bouche (il faut le dévorer), et s’il y a pour lui une nostalgie chronique ‘orale’ du sujet au principe même de son institutionnalisation, c’est d’une Sehnsucht (nostalgie) du père qu’il s’agit. Pour revenir au texte de Lacan de 1938, plus qu’une nostalgie du père, c’est bien un ‘nostalgie de la mère’ qu’il diagnostique aux origines (orales) de l’institutionnalisation subjective », M. ZAFIROPOULOS, Lacan et les sciences sociales, Paris, Puf, 2001, p. 32.

[13] Ne I complessi familiari si legge: « Non solo la proibizione dell’incesto con la madre ha un carattere universale, attraverso l’infinita varietà di relazioni di parentela, spesso paradossali, che le culture primitive gravavano con il tabù dell’incesto, ma anche, qualunque sia in una cultura il livello della coscienza morale, tale proibizione è sempre espressamente formulata e la sua trasgressione è sempre soggetta a riprovazione. Per questo motivo Frazer riconosce nel tabù della madre la legge primordiale dell’umanità. È così che Freud fa il salto teorico che abbiamo indicato come abusivo nella nostra introduzione: dalla famiglia coniugale osservata nei suoi soggetti a un’ipotetica famiglia primitiva, concepita come un’orda dominata da un maschio che a causa della sua superiorità biologica riesce a impadronirsi di tutte le femmine nubili », J. LACAN, Les complexes familiaux dans la formation de l’individu (1938), trad. it., I complessi familiari nella formazione dell’individuo. Saggio di analisi di una funzione in psicologia, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2005, p. 35-36. Non che nella prima fase della sua elaborazione Lacan non fosse, dunque, pienamente conscio della precarietà della costruzione antropologica di Freud, precarietà la cui soluzione, tuttavia, era ricercata sul versante di ricerche segnate in maniera rilevante dal ricorso all’imago materna in psicoanalisi, all’ipotesi matriarcale, e, in genere, a ricostruzioni fortemente caratterizzate nel senso dell’empiria.

[14] S. FREUD, Totem und Tabù. Übereinstimmung im Seelenleben der Wilden und der Neurotiker (1912-13), trad. it., Totem e Tabù. Concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei neurotici, con una Introduzione di K. Kerény, Einaudi, Torino 1997.

[15] Ivi, p. 52.

[16] Ivi, p. 31.

[17] Si tratta di un ponte ribadito con forza da P.-L. ASSOUN (Freud et les sciences sociales. Psychanalyse et théorie de la Culture (1993), trad. it. Freud e le scienze sociali. Psicoanalisi e teoria della cultura, Borla, Roma 1999, p. 93): « La prefazione a Totem e Tabù definisce l’ambizione che si manifesta con questo testo e permette di misurarne l’audacia: si tratta di “gettare un ponte” tra etnologi e linguisti, folkloristi da una parte e psicoanalisi dall’altra ».

[18] Sulla strategia freudiana di questo “racconto delle origini”, cfr. il Capitolo II, Psychanalyse et histoire, in: M. de CERTEAU, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, Paris, Gallimard, 2002, p. 85-106.

[19] S. FREUD, Totem e Tabù, cit., p. 35.

[20] Ivi, p. 36.

[21] Ivi, p. 186-87.

[22] « Ho recentemente pubblicato una Analisi della fobia di un bambino di cinque anni, il cui materiale era stato messo a mia disposizione dal padre del piccolo paziente. Era una paura dei cavalli, a causa della quale il bambino rifiutava di uscire per strada […] Si trovava perciò in quel tipico atteggiamento del bambino maschio verso i genitori che noi definiamo col nome di “complesso edipico”, e nel quale identifichiamo in generale il complesso nucleare delle nevrosi. L’elemento nuovo che veniamo a conoscere dall’analisi del “piccolo Hans” è il fatto, estremamente importante per il totemismo, che, in tali circostanze il bambino sposta parte dei suoi sentimenti dal padre su un animale », S. FREUD, Totem e tabù, cit, p. 178-179.

[23] Ivi, p. 192.

[24] Cfr. S. FREUD, Il tabù e l’ambivalenza emotiva, in ivi, p. 50 e ss.

[25] J. DOR, Le père et sa fonction en psychanalyse, Paris, Denoël, 2008, p. 27.

[26] Sui rapporti tra Lévi-Strauss e la psicoanalisi, oltre a: M. ZAFIROPOULOS, Lacan et Lévi-Strauss, ou le retour à Freud (1951-57), cit., cfr.: A. DELRIEU, Lévi-Strauss lecteur de Freud. Le droit, l’inceste, le père et l’échange des femmes, Paris, Economica, 1999 ; Y. SIMONIS, Claude Lévi-Strauss ou la “passion de l’inceste”. Introduction au structuralisme, Paris, Flammarion,1968 ; Per un bilancio dell’apporto dell’antropologia di Lévi-Strauss alla psicoanalisi lacaniana, cfr. L’anthropologie de Lévi-Strauss et la psychanalyse. D’une structure l’autre, a cura di M. Drach e Bernard Toboul, La Decouverte, Paris 2008. In particolare: M. ZAFIROPOULOS, “Le transfert de Lacan à Lévi-Strauss”, ivi, p. 83-99.

[27] J. LACAN Le séminaire. Livre VIII : Le transfert (1960-61), Paris, Le Seuil, 1991, trad. it., Il Seminario Libro VIII. Il transfert (1960-61), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1991.

[28] « […] non ho trovato di meglio che suggerirvi – se volete veramente capire – di prendere la seconda Enneade di Plotino per vedere come le cose di cui si parla si pongano pressappoco allo stesso livello. Anche là si tratta di Eros, anzi si tratta solo di questo. Per poco che abbiate letto un testo teologico sulla Trinità, non potrete non accorgervi che il discorso di Plotino – siamo alla fine del terzo secolo – è semplicemente un discorso sulla Trinità. Credo che basti cambiare i termini: Zeus, Afrodite ed Eros sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo », ivi, p. 51.

[29]J. LACAN, “La scienza e la verità”, cit., p. 877.

[30] In questo senso, rispondendo al quesito inerente il rapporto tra scienza antica e paganesimo da un lato, scienza moderna e cristianesimo dall’altro, Kojève evidenzia come: « Per quanto riguarda il monoteismo, la sua responsabilità è chiaramente fuori discussione, dal momento che lo si rintraccia allo stato puro sia presso i pagani evoluti sia tra ebrei e mussulmani, irrimediabilmente poco sviluppati dal punto di vista scientifico. Quanto poi al creazionismo, è presente in forma originale anche nel giudaismo e nell’islam, e dunque nemmeno ad esso si può ricondurre la scienza moderna. Né del resto la si può far dipendere dal dogma della Trinità, che il [neo] platonismo pagano è lungi dall’ignorare completamente e che, anche presso i cristiani, spinge molto di più all’introspezione ‘mistica’ o alle speculazioni ‘metafisiche’ che all’osservazione attenta dei fenomeni sensibili dei corpi, o alla pratica sperimentale. Rimane dunque soltanto il dogma dell’Incarnazione che, dal punto di vista della realtà storica, è l’unico fra i grandi dogmi della teologia cristiana ad essere a un tempo autenticamente e specificamente cristiano, ovvero proprio di tutto e solo il pensiero cristiano. Se dunque la scienza moderna va ascritta al cristianesimo, è il dogma cristiano dell’Incarnazione a portarne la responsabilità esclusiva », A. KOJEVE, L’origine chrétienne de la science moderne (1964), trad. it., L’origine cristiana della scienza moderna, ne Il silenzio della tirannide, Adelphi, Milano 2004, pp. 133-134.